Continuo a postare le lettere circolari scritte da Marisa periodicamente, credo che tutte le donne con zaino in stand by le apprezzeranno. Le pubblico così, in ordine sparso, già ne avrete lette alcune del suo periodo sudamericano, oggi ci spostiamo in Europa. Buon viaggio!
R.
CIRCO Marisa
1 settembre 2016
A cavallo tra giugno e luglio ho trascorso una bella settimana a Corfù invitata da Giannina, che ha ormai da anni in affitto un appartamento a Corfù al quarto piano di un grande edificio che guarda il mare, non lontano dal porto. Ha delle gelosie bianche bellissime, all’antica, con barre di legno che permettono di aprire e chiudere le stecche per indirizzare la luce verso il basso o verso l’alto. Per l’altezza e la posizione è una vera casa del vento, ideale nelle giornate della calda estate meridionale. È anche una casa storica, perché Edward Lear, l’autore dei Limericks, ci visse per due anni anche se in un altro appartamento. Ispirate dall’illustre precedente, ci siamo provate a fare qualche limerick anche noi …
C’era una gran signora di Corfú
Cui la rebetica non andava proprio giù;
Viveva a talento
Nella casa del vento,
Quella dama ospitale di Corfú.
There was a great lady of Corfu
Who cherished a lot things Hindu;
She swam in the bay
By night and by day,
That great gentle lady of Corfu.
Il nostro vecchio compagno di università, Armando sta poco lontano, in un appartamento all’ultimo piano dalle cui finestre si vedono i tetti di antiche tegole della città vecchia. Da entrambi gli appartamenti, la mattina presto e la sera si può godere lo spettacolo di rondini, rondoni e balestrucci che sfrecciano garrendo, ebbri di azzurro e aria.
Corfù non è mai stata ottomana, bensì veneziana fino alla caduta della Serenissima: le architetture della città, qualche toponimo (kampielo, liston, spianada) e la gastronomia (sofrito, pastitsada, bordeto, pastitsio, lazania) ne sono testimoni lampanti.
A nord e a sud della baia ci sono due imponenti fortezze: quella vecchia fu iniziata dai Bizantini e completata dai Veneziani, mentre quella nuova (che ha quasi 500 anni) si deve totalmente alla Serenissima. Dall’alto della vecchia si vedono la parte marina della città con le sue isole, isolette e promontori, mentre da quella nuova si gode uno spettacolo di tetti di tegole rosa e ocra, proprio come dal campanile di San Giorgio si vede la laguna mentre da quello di San Marco i tetti di Venezia.
L’ocra, nelle sue varie tonalità, insieme al bianco panna della pietra d’Istria, è il colore dominante di Kerkyra (questo è il nome greco della città).
La parte più “pittoresca”, che comprende il Kampielo, il ghetto e arriva fino alla Spianada, ha strade lastricate e molti portici con graziosi colonnati; poi c’è una parte forse meno antica, ma assai piacevole, un po’ eccentrica (bisogna passare dal porto), popolare, con graziose casette e bei giardini.
Il piccolo mercato della città ha dei banchi di pesce freschissimo, e bella frutta e ortaggi. Si possono comprare piante di basilico di almeno sei varietà, da quello con foglioline non più grandi dell’unghia di un mignolo alla specie gigante, tutte però profumatissime. Ci sono anche un paio di baretti: Giannina e Armando frequentano quello di Gheorghios, che il primo giorno mi ha invitata a una milonga che mi è toccato declinare perché non mi ero portata le scarpe.
Dappertutto, ristorantini e osterie dove si mangia generalmente bene a prezzi moderati.
Ma Kerkyra non è tutta Corfù: l’isola è grande, l’interno è montuoso e molto verde, i pendii sono fitti di olivi inselvatichiti, e pini, cipressi, grandi macchie di bougainvillea cremisi, o di oleandri bianchi, rossi e rosa.
Le strade sono buone, ma a volte strette e con tornanti che i pullman devono prendere con perizia: merita la pena fare qualche escursione, non solo per arrivare a qualche spiaggetta poco frequentata con un mare di sogno, ma per la bellezza del percorso.
Ai bordi delle strade si vedono ogni tanto delle minuscole chiese bizantine su un piedestallo: credo che siano come le animitas cilene, messe lì per ricordare vittime di incidenti stradali.
Sono stata con Giannina e Armando sull’isoletta di Bido, dove ci sono solo un baretto, dei campi scout, una natura selvaggia e alcune belle spiaggette. Ahimé, qualche genio ci ha portato due leoni marini che vivono in un recinto e servono di attrazione ai turisti che non si rendono nemmeno conto che quel tipo di foche non fa parte della fauna mediterranea.
Oltre a Lear, un altro personaggio importante che è vissuto qui è Gerald Durrell. Ho pensato molto a lui quando ho visitato il cimitero inglese, notevole non tanto per le tombe (benché una mi abbia colpito, solo una piccola lapide con su scritto “gone fishing” e un semplice pesce inciso: suppongo che la signora in questione sia annegata mentre pescava…) quanto come giardino botanico; purtroppo non l’ho visto nella giusta stagione. Mr George (o Gheorghios) di famiglia maltese, nato nel cimitero dove suo padre era giardiniere e di cui lui stesso è diventato the faithful gardener, mi ha detto che ogni primavera arrivano due aerei di tedeschi per vedere la straordinaria fioritura di orchidee (quelle europee, niente di tropicale) che qui crescono spontanee e si ibridano da sole; mi ha mostrato un libro con fotografie di un numero impressionante di varietà. Ha solo due anni più di me, ma è abbastanza malandato, con occhi lacrimanti, ma è stato molto orgoglioso di mostrarmi le sequoie gigantesche che ha piantato decenni fa, e felice di raccontarmi anche una quantità di aneddoti sugli ospiti di varia nazionalità di quel cimitero dove, dice lui “sono nato e morirò”.
Qualche giorno a Treviso da Luciana, compagna di camminate e tango in Argentina, che mi ha scarrozzata un po’ su e giù per le colline, fitte di vigneti: dopo l’azzurro e turchese del mare di Grecia, il verde del mare del Prosecco e del Cartizze, di estrema dolcezza; ci siamo fermate qua e là, a Pieve di Soligo, a Follina, dove le vecchie case e i bei restauri ci hanno riempito occhi e cuore, e la buona cucina ci ha riempito il pancino (che è, ahimé, quasi un pancione!)
La casa di Luciana è vicinissima alla Rastera, un’alzaia che costeggia il Sile, dove abbiamo fatto una lunga passeggiata in bici, con la luce radente del tramonto e, al ritorno, nel buio risonante di grilli.
Tra luglio e agosto, sono stata a Cuneo. Ho fatto un viaggio comodo da Mestre perché non si esce più dall’autostrada fino a Alba, mentre in passato la tratta finiva prima e inoltre bisognava passare il casello a Cremona. Ma la mia aria condizionata funzionava male e avevo la maglietta zuppa, tanto che, quando dopo Alba mi sono fermata in un bar per mangiare qualcosa e riposarmi una mezz’ora, me la sono dovuta cambiare.
La ragazza del bar aveva la voce identica alla Littizzetto, solo che non era così divertente: inoltre la Lucianina avrebbe potuto fare un bel pezzo sulla “piadina” che mi è stata rifilata (“non abbiamo pane da toast”): la pasta era vagamente (s)cotta, le due fette che farcivano l’oggetto erano difficilmente identificabili: prosciutto cotto? Porchetta? Plastica? Però la cosa mi è stata formalmente servita su di un tagliere (argentinizzazione del Piemonte? O prova dell’influenza della cultura piemontese su quella ultramarina?) con coltello e forchetta …
Lasciata la pseodolucianina ho proseguito il viaggio: dal caldo torrido di gran parte del viaggio, dopo Alessandria ero penetrata in una pesante cappa di foschia grigia, ma poi è cominciata una lieve pioggia che, rinfrescando l’aria, mi ha reso gli ultimi chilometri più gradevoli, anche se la nuova viabilità in prossimità di Cuneo mi ha lasciata decisamente perplessa: ho impiegato mezz’ora per un percorso che normalmente richiedeva 5 minuti. Accolta calorosamente dal fratello, mi sono liberata degli indumenti fradici, e dopo una doccetta sono andata con lui a godermi la ricompensa per aver trangugiato la pseudopiadina: un aperitivo di Magdalener accompagnato da deliziose tartinette fantasiose, olive, arachidi, stuzzichini vari e persino un mini pinzimonio. Si sa, quello che oggi si chiama apericena, in Piemonte è da sempre il normale aperitivo.
Contrada Mondovì, la stradina nel piccolo centro storico di Cuneo, dove abita mio fratello, Giorgio, è pedonale; è stata lasciata più o meno com’era, con il suo acciottolato di pietre di fiume e le due strisce lastricate per facilitare il passaggio di carri e carrozze; ha portici, di cui parte (colonne o altro) costruite con pezzi di risulta. C’è una chiesa, San Sebastiano, che apre solo per la festa del santo, e un museo della curia, proprio di fronte alle finestre di Giorgio che danno sulla viuzza denominata Contrada San Sebastiano: col restauro, il grosso edificio ha perso le sue belle tegole originarie per un tecnologico tetto marron scuro, grazie a chissà quali autorizzazioni.
Dirimpetto c’è la sinagoga, con le sue tre belle finestre centinate e la scritta in ebraico. E c’è Eianda, il ristorantino dei genovesi dove si possono gustare un’eccellente farinata, la focaccia di Recco e torte salate di ogni genere; per chi ama il dolce, invece, un francese ha messo su un delizioso Atelier des Tartes, che fa anche buon pane che si compra a peso d’oro; a pochi metri – la strada è molto breve – un’enoteca, lo Stuzzicavino, con aperitivi invitanti. Ci sono anche un macellaio piuttosto umorale, caro ma con carne di primissima qualità, e una gelateria molto quotata. Per non farsi mancare niente, qualche negozio di vestiti per grandi e piccoli, una coppia gay che vende antiquariato, un negozio di scarpe e una specie di casalinghi sui generis.
D’estate la contrada è in festa, e ogni anno ne pensano una nuova: questa volta le finestre sono pavesate di rosso, e una fila un po’ serpeggiante di sedie, tutte diverse tra loro, è stata piazzata al centro della strada, per invitare i passanti a fermarsi e ciacolare un po’. E il giovedì sera, quando le botteghe chiudono alle 11, i negozianti cenano insieme a un tavolo all’aperto. E’ una dimensione molto gradevole, tutti si conoscono e tutti spettegolano, ma nessuno se ne preoccupa più di tanto. Unico problema, l’acustica: la pavimentazione e la strettezza della strada fanno da cassa di risonanza, e al terzo piano si sentono le voci di chi chiacchiera al bar di sotto come se ce li avessi in casa. Di giorno non importa granché, ma di notte la cosa può diventare problematica per chi volesse dormire, anche per via di quelle sedie generosamente messe a disposizione dei passanti e che, nelle tiepide notti estive, incoraggiano le confidenze amichevoli. Talvolta però si esagera: una notte, alle 3 passate, c’è stato un battibecco quando una signora è uscita in balcone per pregare un gruppetto di amici di essere più rispettosi dell’altrui sonno e questi, arrogantemente, l’hanno derisa e mandata a farsi friggere con male parole. La signora è intervenuta ancora un paio di volte tra un crescendo di sbeffeggiamenti; poi, siccome si trattava di una visita amichevole, i visitatori si sono congedati dagli amici salendo ostentatamente sulla fiammeggiante Ferrari Testarossa abusivamente parcheggiata e promettendo – ed eseguendo – una partenza ruggente. Dopo un’ulteriore – ma moderata – dose di sberleffi e risatacce, anche i loro degni compari se ne sono andati, e la contrada ha finalmente potuto abbandonarsi al sonno. Io, personalmente, in caso di rumori esterni, mi difendo con musica dolcemente versata nelle mie orecchie direttamente dall’MP3, ma non tutti amano questo sistema, e l’estate, con le finestre aperte, può essere davvero dura.
Una volta al mese un’organizzazione locale inanella gli uccelli: la mia amica Adriana, che è volontaria del Parco Fluviale, mi ha invitata a partecipare. Siamo andate a controllare le reti che Dario (il volontario: bella rima) aveva messo la mattina alle sei, ma il bottino era abbastanza povero. Tre merlotti. Lui però aveva già trovato un’upupa e un altro merlotto. Gli uccelli vengono messi separatamente in sacchetti di cotone, e poi rapidamente registrati, misurati, inanellati e subito liberati. Ogni bestiola si comporta a modo suo, e un bel grembiulone impermeabile è fondamentale, per i casi in cui l’emozione muova le budella ai pennuti, com’è successo all’upupa, bellissima, con la sua fiera corona di piume e i suoi eleganti colori.
Dopo sette anni di assenza, ritorno nel Vercors. Viaggio bellissimo sia dalla parte italiana che da quella francese, con fioriture di diversi colori a seconda dell’altitudine e della composizione del suolo: celesti, rosa, gialli, bianchi, violetti, e cieli azzurrissimi.
Alla Britière ho trovato Annie e suo marito Jean, impegnati, per tre settimane, con i rampolli del loro figlio Vincent. Elsa (pronunciato Elzà), quattro anni e mezzo, bellissima con i suoi capelli neri e mossi, sempre scarmigliati, e gli occhioni scuri sulla pelle bianchissima, è un vero elfo. Avrebbe fatto palpitare di emozione il reverendo Dawson, alias Lewis Carroll, anche perché pare perfettamente conscia del proprio appeal. Dominata da un tenace spirito di contraddizione, tende a fare l’opposto di quello che le si chiede, difficile farle una foto in cui non esibisca un graziosissimo broncio.
Il fratellino, Raphaël, anche lui bellissimo, sembra più docile, ma la sera, all’ora della nanna, dimostra tutto il vigore dei suoi polmoncini per un tempo variabile.
Elzà ha coinvolto i ragazzini dei vicini – tra cui un maschietto di qualche anno più grande di lei, ma irretito dal suo fascino – in una raccolta di lumache e piume.
Durante la mia breve permanenza c’è stato un piccolo giallo, il mistero della gallina (dei vicini) assassinata, trovata schiacciata sulla strada prospiciente la casa, subito però risolto perché l’assassina si è volontariamente costituita; il problema più grave è stato impedire a Elzà di precipitarsi a vedere il cadavere, la nonna temeva che lo spettacolo le avrebbe dato incubi.
Ho conosciuto Jesús, uno spagnolo che ci ha raccontato una stranissima storia. Qualche anno fa, in Indonesia, ha ceduto alle molte insistenze di un locale che voleva vendergli oggetti provenienti dalla casa di un olandese: per una decina di dollari ha comprato un rotolo di tele, senza neanche guardarle, solo per toglierselo dai piedi e fargli quasi la carità. Poi, però, guardandole – era quasi tutta roba cinese – ha trovato un ritratto che a lui, del tutto digiuno non solo di pittura, ma direi anche di cultura, non diceva granché. Solo che era firmato, sembrava VAN GOL … Per quanto inesperto, qualche cosa gli si è risvegliata in testa, e ha guardato meglio, e la supposta L era una G, e si intravedeva anche un’H.
Allora ha cominciato a informarsi, leggendo e guardando riproduzioni; ha letto le lettere di Van Gogh e si è convinto – la tela non solo è firmata, ma reca una scritta con l’indicazione di “autoritratto da bonzo” – che si tratti dell’autoritratto che il pittore aveva dipinto per regalare a Gauguin. Secondo lui il quadro che si ritiene destinato a Gauguin e che si trova in un museo a Harvard non sarebbe che un primo tentativo, considerato insoddisfacente dallo stesso VG, che invece poi avrebbe scritto una lettera in cui dichiara di essersi finalmente dipinto come voleva, e indica anche il colore – diverso nella copia di Harvard ma corrispondente alla sua – della giacca.
Jesús sostiene di avere fatto molti passi nel tentativo di fare autenticare il dipinto: ha mandato ad analizzare un piccolo riquadro di tela, che sembra corrispondere a quello usato all’epoca dal pittore; e poi ha sottoposto quadro e firma a periti, che li danno per buoni.
Il museo Van Gogh, che si ritiene l’unico a poter autenticare l’opera, dopo aver dato responsi positivi ad ogni grado di esame al quale la tela è stata sottoposta, non ha più dato risposta all’ultimo grado: secondo Jesús, non vogliono sputtanarsi perché hanno già autenticato l’autoritratto di Harvard. Io non so: sarà vero, o Jesús è un mitomane, oppure un truffatore? O tutti e due?
Perla preziosa offerta da un conoscente di poca cultura ma di grande cuore e simpatia, che, in difficoltà con il vocabolario, durante una conversazione ha parlato di circoncisione di incapace; sono riuscita a mantenere il sangue freddo, soprattutto perché davvero è una persona degnissima e non meritava di essere deriso.
Varie incursioni nelle numerose valli che da Cuneo si aprono a ventaglio verso le Alpi e l’Appennino, alcune con amiche, altre con Giorgio.
Sono andata a vedere – o rivedere – alcune delle piccole chiese o cappelle montane che ancora contengono, più o meno conservati, ma in parte restaurati, affreschi nello stile gotico internazionale. In alcuni casi bisogna andarsi a prendere la chiave in una botteguccia locale, dal parroco, in una trattoria. Tra l’altro, le cappelle sono sempre situate in luoghi solitari e bellissimi, che già di per sé valgono la visita.
E poi ho anche goduto di qualche bella camminata non impegnativa.
Memorabile quella in Val Varaita. Siamo partiti da Bellino che è un comune diffuso, formato di vari borghi, molto ben conservati nella loro architettura tradizionale di case in pietra coi tetti di lose (lastre di ortogneiss) grigie; dal borgo più alto si dipartono numerosi sentieri di diversa lunghezza e difficoltà. Noi ne abbiamo scelto uno non impegnativo, e siamo stati fortunati perché la giornata era sfolgorante, e per tutto il percorso siamo stati accompagnati da una rigogliosa fioritura di epilobio, masse di infiorescenze a spiga color cremisi, che facevano da sfondo al turchino impeccabile del cielo e alle formazioni rocciose che cambiavano a ogni giro del sentiero; inoltre, di man mano che si saliva, le altre fioriture variavano, e anche i colori dominanti. Finalmente siamo arrivati a un pianoro che evidentemente era servito – o forse ancora serve – da alpeggio per le mucche, data la ventina di piccole costruzioni isolate.
La Val Varaita è anche rinomata per i formaggi, le noci e altre specialità. A Melle abbiamo cercato qualche negozio che avesse i prelibati Tumin dal Mel, (piccole robiole di latte vaccino, delicatamente saporite) ma eravamo fuori orario e abbiamo poi fatto rifornimento in un caseificio appena fuori paese.
Giorgio ricordava anche uno strepitoso pane cotto in forno a legna a Venasca, per cui ci siamo fermati in quel paese e abbiamo scoperto almeno tre forni, di cui uno in un cortile, senza nessunissima insegna ma con una bella fila di clienti che si snodava fuori del piccolo negozio. In effetti, il pane che abbiamo comprato (in tutti e tre i negozi, per non fare torto a nessuno) era eccellente, e ha meritato la ricerca puntigliosa.
Marisa