II PARTE
Arriviamo all’estancia (fattoria) che ci ospiterà all’imbrunire. Fa freddo ma nel capannone dell’ esquila (la tosatura), dove ci portano, gli uomini hanno le maniche della camicia arrotolate sulle braccia. Un gruppo allinea le pecore, le porta verso i tosatori. Questa scena l’ho già vista in Sardegna, la mia terra, negli “stazzi” in campagna, dove ti pareva di vivere al tempo omerico dei re-pastori. Ma qui è diverso. I tosatori ci spiegano cosa stanno facendo, perché quello che stanno facendo è sì lavoro ma anche spettacolo per i turisti e il padrone pretende da loro anche la rappresentazione e loro rappresentano quello che credono noi si voglia vedere. Ma io vivo in Argentina da quasi vent’anni, non sono più turista da molto tempo, se pure lo sono mai stata, dal momento che ci sono venuta per lavoro, e i miei amici, loro sono proprio Argentini da due o tre generazioni, anche se, come dicono qui, bajaron de los barcos (scesero dalle barche), per indicare l’origine europea della maggior parte degli abitanti del paese, antenati italiani, spagnoli, tedeschi, russi, tutti venuti a cercare su questo lato dell’oceano l’Eldorado, scappando dalla guerra, dalle persecuzioni o dalla povertà. Questi Argentini, sono figli dei grandi flussi migratori del passato che sono arrivati a popolare terre semideserte dove parte degli indigeni sono stati sterminati nelle famigerate campagne del deserto, volute dalla volontà politica di fare di questa terra uno specchio d’Europa o lentamente si sono assimilati mischiandosi agli europei. Ma gli Argentini non sono europei, perché questa terra li ha forgiati in un’identità nuova e complessa, pampa, montagne, ghiacciai e oceano, sterminata solitudine e aspra lotta per la sopravvivenza, contatto con realtà altre, rendendoli diversi dai loro antenati nati a ridosso del Mediterraneo, in quel “mare nostrum”, in quelle terre coltivate, densamente popolate, forgiate da millenni dalla mano dell’uomo, dalla sua cultura e dalla sua storia. La società e la politica argentine oscillano da sempre tra ambizioni “europeiste” e ambizioni “autonomiste”. Nell’ultimo governo di Cristina Kirchner si è portato avanti il tentativo di rifondare il concetto di nazione proprio su quelle culture indigene, rivalutandone l’apporto alla storia nazionale. A questo progetto di rifondazione mitica della nazione non era estranea la volontà di staccarsi da forme di dipendenza culturale, economica e politica dall’Europa e dagli Stati Uniti (vedi diatriba con il Fondo Monetario Internazionale per il pagamento del debito esterno). Con il governo di Mauricio Macri, all’insegna di un neoliberismo sfrenato, si è soffocata totalmente qualsiasi istanza di identità nazionale autonoma, riagganciando l’Argentina a una vecchia politica culturale sociale e economica di stampo memenista che ha rimesso il paese nell’ambito degli interessi europei e statunitensi e lo ha riconsegnato ai grandi capitali finanziari esteri.
Non possiamo più stare nel capanno, per noi il freddo è insopportabile, le pecore private della loro lana tremano, i tosatori si accasciano stanchi sulle panche di legno. Corriamo verso la casa sulla collina che ondula appena la pianura. Ci aspetta una sala grande, accogliente con una lunga tavolata disposta a ferro di cavallo, apparecchiata per una ventina di persone. Davanti al lato aperto, a vista, l’ asador (quello che cuoce la carne)alla parrilla (la griglia) sta facendo meticolosamente il suo lavoro. Siamo un’isola di luce e calore nel buio. Brillano le fiamme, i peltri, i bicchieri, i piatti, le posate sulla tovaglia di canapa chiara. L’odore del capretto che arrostisce allo spiedo è ancora per me un affiorare d’isola mia e d’infanzia. Sono precipitata indietro nel tempo. Ci servono un vino rosso pastoso e forte. Mentre aspettiamo la cena ci suonano una Chacarera (danza folklorica del Nord argentino ballata in coppia all’interno di una coreografia di gruppo), con chitarroni solidi di legno chiaro, mani che hanno lavorato per ore e che sembrano di colpo diventate leggere, innocenti per toccare sulle corde quella musica che fa muovere i piedi. Si formano alcune coppie nello spazio tra i tavoli. Mi prendono a ballare, un fazzoletto bianco tra le mani che traccia chiarore e movenze di questa danza popolare dove il corteggiamento si consuma con insinuante malia. Torniamo ai tavoli. Ci servono la cena. Davanti a noi due ragazzi ballano uno scatenato Malambo (danza folklorica del Sud argentino, inventata dai gauchos e ballata solo da uomini) mentre lento il fuoco della brace va scemando e la loro bravura ci seduce come il sapore della carne che quasi si scioglie in bocca.
La pampa è fuori, immensa, misteriosa, suggestiva, oscura e noi per contrasto, stando al riparo, la facciamo nostra nella casa calda, piena di musica e voci.
Ed ecco una poesia di Grazia Fresu ispirata a questo magnifico viaggio:
Un vecchio emporio
Questo vecchio almacén anni ‘50
isolato emporio nella polvere della pampa
imprevisto spaccio di vecchie latte
fagioli ceci birra pane spaghi
formaggio stagionato chiodi tele cerate
s’ innesta in altri sapori perduti
infanzia lontana brezza soave
mare e vele sull’orizzonte.
Compro insieme cibo per il viaggio
e ricordi che certi odori certi scaffali
il viso di pietra che mi serve al bancone
sollevano dall’oblio come il vento fuori
con le consunte foglie,
una connessione per chiamarti
un attimo breve per dirti che non esci da me
che non ti perdo neppure in questo universo
di silenzio e d’erba che si ripetono
neppure nella stanchezza nel vuoto
nel bisogno di un letto comodo,
stai nelle mie palpebre socchiuse
nel sospiro improvviso che lacera l’attesa
nella sete d’acqua di baci d’isola mentre fuori
un’altra terra senza di noi respira.
Grazia Fresu