Kaila e l’Appalachian trail

Kaila ha percorso, in solitaria, un terzo dell’Appalachian Trail, uno dei tre sentieri americani a lunga percorrenza che formano il Triple Crown of Hiking (Tripla Corona dell’Escursionismo) insieme al Continental Divide Trail e il Pacific Crest Trail. L’Appalachian Trail, nella sua interezza, è un percorso di 3524 km che attraversa i monti Appalachi nella costa orientale degli Stati Uniti attraversandone quattordici da Springer Mountain, in Georgia, a Mount Katahdin nel Maine e si dovrebbe percorrere in una stagione. L’estensione prevede addirittura di iniziare in Alabama per terminare in Quebec.

Kaila è una giovane donna italoamericana cresciuta tra Italia ed Inghilterra che ha la natura e l’hiking nel sangue: è stata abituata fin da bambina a trascorrere un periodo, con la sua famiglia, immersa in un ambiente naturale da percorrere a piedi, in canoa, alla scoperta di angoli lontani dalla civiltà. Sapevo della sua impresa dalla mamma Alessandra, incontrata a Lerici, ma ero curiosa di avere il suo racconto diretto quindi ci accordiamo per un appuntamento telefonico che concordi con le nostre sei ore di fuso orario. A New York City, dove vive attualmente e da dove mi chiama per raccontarmi la sua avventura, sono le nove di mattina. Dai nostri schermi ci troviamo a sorseggiare un caffè, lei quello del risveglio, io quello del dopo pranzo. Ecco il suo racconto:

Il mio progetto era di completare il percorso in cinque mesi e mezzo circa ma ad un terzo del cammino, poco più di mille chilometri in due mesi, ho dovuto abbandonare per la rottura parziale del legamento crociato anteriore. Mi ero fatta male al ginocchio dopo la seconda settimana ma ho continuato a camminare pensando di avere solo una lieve storta finché il dolore è aumentato al punto di non poterlo ignorare. Sono andata allora da un medico ed ho così saputo che stavo rischiando di compromettere tutti i legamenti e non poter percorrere più nessun sentiero. In lacrime, ho deciso dunque di interrompere in cammino, ma l’esperienza è stata tra le più forti della mia vita. Pianifico di rifarlo, ricominciando tutto il percorso!

Non so bene quando mi è nata l’idea di mettermi in viaggio per questo sentiero ma penso che venga da molto lontano. Con mio padre andavamo in America ogni due anni per un percorso avventuroso di un paio di settimane e per me questo territorio è fortemente legato alla natura. Una volta, quando avevo sedici anni, eravamo andati a fare un tratto di sette giorni del percorso degli Appalachi vicino a Mount Washington; era luglio pieno e mi ricordo che io e mia sorella pensavamo di morire per ipotermia perché eravamo in calzoncini corti. Il primo giorno, per una serie di infortuni, siamo andati molto lentamente, cinque miglia in cinque ore. Arrivati al campeggio, mentre filtravo l’acqua da un fiume, incontrai un uomo magro ed atletico con cui ho cominciato a conversare. Mi disse che stava facendo tutto il sentiero e anche lui affermava di essere andato lentamente quel giorno avendo percorso “solamente diciassette miglia“! Ecco, è da lì che mi è venuta l’idea di poterlo fare anche io un giorno. L’occasione per me è stata la fine degli studi universitari e il lockdown in pandemia più la classica crisi post laurea su cosa fare della propria vita: ho pensato che sei mesi di meditazione mi avrebbero aiutato a capire. É stato tutto un ‘last minute’: due settimane di pianificazioni in Inghilterra dove vivevo allora, poi il volo per l’America con lo zaino contenente solamente il necessario per il cammino e qualche maglietta extra. Ho passato due settimane di quarantena autoimposta in Tennessee che sono state davvero utili perché mi hanno dato il tempo necessario per organizzare il necessario: comprare una sim card americana; venti scatole di rifornimenti da spedirmi durante il percorso; capire perché le mie carte bancarie non funzionavano; comprare la tenda da campeggio e così via.

Sono partita il 10 aprile 2021: il primo giorno è stato importantissimo per me. Nella foga dei preparativi non avevo avuto il tempo per entrare in ansia anche se mia madre aveva recentemente scoperto dei (statisticamente pochi) omicidi che sono avvenuti nel percorso (e di cui ero già a conoscenza ma avevo strategicamente evitato di menzionare) e mi aveva chiamata in preda al panico. Arrivando all’inizio del sentiero, ho cominciato a sentirmi le ‘farfalle nello stomaco’ come mi succedeva prima di dare un esame importante. All’ingresso del sentiero c’è un ufficio dei ranger nella foresta; mi sono fermata lì a controllare lo zaino mentre arrivava unaltra ragazza che stava iniziando il percorso. Abbiamo cominciato a parlare e notato di aver pianificato la stessa sosta in campeggio per la sera (per evitare l’impatto alla natura si richiede agli hikers di accamparsi presso dei capanni che sono strutture in legno a tre lati disseminate ogni sei miglia circa). Questa conversazione mi ha tranquillizzato enormemente. Ho cominciato così a camminare percorrendo dieci miglia in ripida salita e attraversando tutte le intemperie possibili: prima grande caldo, poi freddo e pioggia fino ad arrivare all’accampamento. Mentre mi avvicinavo al campeggio le nubi si sono diradate ed è arrivata la luce dorata del pomeriggio dopo la pioggia; sentivo il chiacchiericcio spensierato degli altri hikers ed ogni paura si è dissipata e li mi sono detta: -Andrà tutto bene!

Così ho continuato a camminare nei giorni e nelle settimane successive incontrando spesso le stesse persone: ognuno marciava durante il giorno a ritmi diversi ma poi, con alcuni di loro, ci si incontrava la sera al rifugio. Durante il cammino, via via i ritmi cambiano anche perché il percorso attrae sia i ‘party-hikers’, che usano il sentiero come occasione per fare una gran festa ambulante e quindi sostano in ogni villaggio possibile per rifornirsi di alcol ed altre sostanze, che i ‘vlogger’, che devono fermarsi anch’essi frequentemente per caricare il telefono e farsi la doccia. Infine ci sono i ‘superatleti’ che ricoprono una media di venticinque miglia al giorno, si fermano per una doccia ogni due settimane, finiscono il percorso in quattro mesi e si riconoscono dall’odore e perché sembrano un pò barboni. In mezzo ci siamo noi, camminatori per i quali le docce sono meno importanti (il mio record è stato undici giorni senza toccare sapone e devo dire che è stata dura) e che marciamo con calma.

É un percorso che lascia un segno permanente anche fisicamente. Non conosco molti escursionisti che ne sono scampati fisicamente intatti. Quando spiego alle persone perché ho lasciato il percorso, racconto del mio ginocchio ma mi dimentico che nel frattempo stavo combattendo una serissima infezione di impetigine che mi ha completamente ricoperto la zona lombare di pustole dolorose, ha sopravvissuto a due cicli di antibiotici aggressivi e che non sono riuscita a curare completamente fino a due mesi dopo aver smesso la marcia (quando avevo libero accesso a docce ed a molteplici cambi di vestiti) e di cui tuttora mi rimangono alcune cicatrici. Meglio non mostrare le foto perché sono talmente oscene che dovremmo poi chiudere il blog! Una mia amica, che ha completato il percorso intero, si è poi dovuta operare ed accorciare un dito del piede e non pensa che potrà più fare avventure simili. Un altro mio amico ha fatto un terzo del percorso, poi è tornato l’anno seguente per farne un altro terzo ma si è devastato (e dovuto operare) il menisco. É un’avventura brutale. Dal punto di vista della bellezza naturale, non è il più impressionante tra i tre che formano il Triple Crown; rimane però il più popolare, in gran parte per il senso di comunità, e per le persone che sostengono i camminatori: i Trail Angels (angeli del sentiero). Sono ex camminatori o appassionati che dedicano il loro tempo libero a offrire cibo o a cucinare per gli hikers. Si fermano agli incroci quando il sentiero passa ogni tanto per una strada e forniscono da mangiare o da bere; a volte hanno una tenda da cucina per dare un pasto caldo. Possono essere grandi o piccoli gesti come prenderti la spazzatura che, portata per giorni, è un peso da smaltire. Anche questo, infatti, richiede organizzazione e ricerca, ed è positivo perché ti rende un hiker più responsabile: sono in pochi, ad esempio, a fare questo percorso senza sapere che non è accettabile buttare la buccia del mandarino per terra. In questo mondo si segue strettamente la legge del “leave no trace” (non lasciare nessuna traccia) e tutto ciò che il camminatore porta con sé nei boschi, esce con lui dai boschi. Questa preparazione però ha fatto sì che non ho avuto molte sorprese o cose da imparare durante il percorso. Mi ricordo qualche trucco utile per perdere qualche grammo di peso dallo zaino: il nastro isolante si usa per riparare tutto, dalle tue scarpe le cui suole si sono staccate, alla busta dei rifiuti che sta esplodendo. Ma non c’e bisogno di portare un rotolo intero: si può arrotolare la quantità desiderata intorno alle racchette da trekking, togliendo cosi il peso dalle spalle. A parte ciò, le sorprese che mi ha portato il percorso sono meno definite, più vaghe. Alcune non posso neanche spiegarle a parole, ma suscitano un’emozione che condivido con chi ha fatto quest’esperienza.

La solidarietà tra le donne è stata per me la cosa più sorprendente. L’Appalachian Trail è percorso più o meno da una donna ogni quattro uomini e ancor meno sono le donne che intraprendono il viaggio da sole. Ne risulta un senso di solidarietà femminile senza traccia di competizione, a livelli che non ho mai incontrato al di fuori del cammino. Non sono solo le hikers a riconoscerlo: quello degli Appalachi è un cammino con il ‘richiamo delle sirene’ che può travolgere anche quelli che non l’hanno mai percorso. Non avevo ben capito quanto il mio viaggio avesse un impatto sugli altri finché arrivai in un paese (che per questioni di privacy non nominerò) che aveva l’antipatica ordinanza di non lasciar montare tende da campeggio neanche nei giardini privati. Non trovando posto dove fermarmi, stavo contemplando di dormire sotto a un ponte quando il proprietario di una serie di casette in affitto si impietosì di me e mi permise di campeggiare segretamente in un angolo del suo prato che dava sulla sponda del fiume. In vacanza (come lecite clienti), in due di quelle casette, c’erano otto donne del Virginia per un viaggio tra amiche. Incuriosite dai miei maneggiamenti con la tenda, mi chiesero di raccontare cosa stessi facendo. Ad ascoltare la mia storia furono talmente ispirate dall’idea di un’avventura del genere che mi invitarono a cena (un hiker non rifiuta mai cibo gratis), a colazione il giorno seguente ed a farmi una doccia di cui avevo terribilmente bisogno. Ecco che le otto donne sono divenute Trail Angels senza aver mai conosciuto il termine. É stata un’amicizia spontanea, nata da questo seme di ispirazione e tuttora sono in contatto con alcune di loro.

Poi c’è stata Annie (per questioni di privacy non è il suo vero nome). Annie è una Trail Angel praticamente professionista che ospita gli hikers nella sua bellissima casa di stile Old South, offrendo cena e colazione, doccia, letto comodo e lavatrici. Inizialmente non capivo cosa portasse persone come Annie a fare ripetutamente questi atti generosi senza altri scopi. Passai tre giorni di riposo con Annie – un’infinità di tempo rispetto alle solite dodici ore ma a quel punto il mio ginocchio stava dando seri indizi di collasso ed avevo bisogno di riposare – e così ebbi modo di conoscere le sue motivazioni. A suo tempo, il marito di Annie aveva percorso il sentiero varie volte ed era anche lui vittima del ‘richiamo sireno degli Appalachi’. Mai interessata a percorrere il sentiero lei stessa, Annie, ora vedova, ha trovato il modo di avere un rapporto speciale con il percorso che fece tanto felice suo marito: ospitando hikers stanchi ed affamati nella casa che costruirono insieme ed ascoltando le loro storie. Ecco quello che può capitare in questo sentiero così speciale.

Chiedo a Kaila quali sono le motivazioni che hanno spinto lei e le persone che ha incontrato ad intraprendere questo cammino dedicando diversi mesi a questa esperienza. Anche se le persone sono vaghe nello spiegarlo, lei si è fatta una sua idea:

Il modo migliore per descrivere il perché si decide di fare il cammino è che ci si trova in un punto di incrocio della propria vita e allora si prende una pausa per capire cosa si vuole fare. Il percorso degli Appalachi è fatto per i momenti della vita nei quali ci sono troppe domande, o singole domande dalle risposte confuse; per i punti interrogativi. Per questo il gruppo di partecipanti più numeroso è quello dei neolaureati, ma il secondo gruppo più rappresentato è quello dei neopensionati che affrontano una nuova fase della loro vita. Ci sono anche molti ex militari che fanno il cammino al termine di una missione oppure ci sono persone che hanno finito una relazione o una carriera. Infine ci sono persone che hanno obiettivi meno marcati e lo fanno per il gusto di un’avventura o per prendere una pausa dal lavoro o cambiare orientamento.

Non so dire se ho trovato le risposte che cercavo perché per me interrompere il sentiero mi ha davvero spezzato il cuore. quando mi è stata data la diagnosi che non avrei potuto continuare il percorso mi sono sentita disintegrare quel mondo e l’esistenza che mi ero costruita in quei due mesi. Mi rendo conto ora che due mesi non sono molto lunghi, ma in quelle condizioni di fatica e di pura felicità durano un’eternità. L’Appalachian Trail è stato davvero il mio primo grande amore e doverlo interrompere ha aperto una grande ferita che ha impiegato molto tempo a rimarginarsi. Ho l’impressione che per me rimarrà un capitolo incompleto finché potrò tornare a ripercorrerla, ma rimango comunque talmente grata e felice di avere avuto questa fantastica esperienza che mi ha reso una donna più completa e di aver potuto assaporare questa rara libertà. (Kaila)

P.

Author: Patrizia D'Antonio

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