Lidia, Reggio Emilia, Bologna, Milano, Boston
Pittrice, scenografa, interior designer, Lidia Bagnoli è nata nella montagna reggiana, a Castelnovo ne’ Monti ma si è sempre spostata molto. Il movimento è nelle sue corde; anche se non si definisce una viaggiatrice vera e propria, le interessa il viaggio come mezzo per vedere altri luoghi, altre luci. Si è trasferita presto da quel posto in montagna dove il paesaggio era bellissimo ma la faceva sentire in trappola, le succede anche adesso, quando si reca lì ed è estasiata durante le prime due ore, poi ha fretta di scappare. Quando ha visto Genova per la prima volta aveva sei anni e Lidia ritiene che quella sia stata l’esperienza più importante della sua vita. Nel ’59 vedere una città in movimento, in trasformazione, le ha aperto il mondo. La sua famiglia era emigrata dopo vicissitudini lavorative spiacevoli. La città di approdo era stata dapprima Genova, dove la famiglia si era fermata due anni, per poi spostarsi verso Reggio Emilia. Per frequentare le scuole medie Lidia è ritornata nel paese di origine. A quattordici anni infine si è stabilita a Bologna, in tempo per iscriversi al liceo artistico. Andava bene a scuola, amava il disegno e la pittura. I suoi genitori erano titubanti per la scelta degli studi ma Lidia li ha rassicurati che il diploma le avrebbe permesso subito di lavorare, a quei tempi si poteva insegnare arte appena usciti dal liceo.
Lidia:
Fin dalle elementari mi piaceva disegnare, passavo molto tempo da sola e, a volte per passione, spesso per noia, per passare il tempo, disegnavo. Incoraggiata dagli insegnanti ho frequentato quella che era la scuola che amavo, Il liceo artistico. Lì ho imparato molte cose, posso dire che il liceo mi ha formato. In seguito ho continuato con l’accademia, e l’arte è diventata la mia professione. Ho cominciato a fare qualche supplenza, poi a lavorare in vari settori: tante esperienze diverse, tanti nuovi stimoli, volevo continuamente mettermi alla prova. Ho lavorato in pubblicità, in studi di architettura, studi tecnici dove geometri si occupavano di rilievi , impianti e parti tecniche, io della parte creativa e progettuale. Spesso dovevo lavorare in tempi strettissimi. Un giorno nel mio studio è arrivato un committente alle 22:30 a richiedermi di progettare un villaggio turistico in Senegal, il tutto doveva essere pronto in poche ore. Ho cominciato con il disegno per poi passare alla progettazione, riuscendo alle 8:00 del mattino seguente a consegnare il tutto per la presentazione al cliente. Il mio lavoro si è poi diversificato con l’allestimento di scenografie per il teatro. Non ho mai cercato degli ingaggi, mi sono sempre arrivati con un passaparola, piacevo ad un cliente e mi chiamavano subito altri a cui ero segnalata da chi mi aveva apprezzato. Erano gli anni ’70 e ’80, fertili per noi artisti, molte volte rifiutavo, potevo scegliere, passavo indifferentemente dall’architettura al trompe-l’œil. Lavoravo anche per delle aziende e dei negozi dove seguivo l’arredamento d’interni, ma non ho mai tralasciato la pittura. Ho sempre pensato che tutto il tempo che dedicavo al lavoro per sopravvivere era tempo sottratto alla mia vera passione.
Quando mi hanno assunto all’accademia di Brera come insegnante ho potuto finalmente dedicare più tempo alla pittura. Nonostante facessi la pendolare tra Bologna e Milano, lavorare all’accademia mi è piaciuto da subito, mi confrontavo con persone adulte. Aiutare gli allievi a sviluppare i loro progetti mi gratificava.
Lì ho incontrato anche colleghi interessanti e condiviso progetti con il conservatorio di Milano dove ho iniziato a collaborare con Sonia Grandis, attrice e regista, per l’allestimento di alcune opere. La mia vita era tutta legata all’arte, mi piaceva affrontare novità da applicare a un progetto. Per un po’ ho frequentato anche la facoltà di architettura, anche se non sono arrivata a conseguire la laurea quegli studi mi hanno aiutato molto da un punto di vista tecnico.
I primi anni in cui lavorava con supplenze annuali a Bologna, poco prima di andare a Brera, Lidia ha incontrato la compagna della sua vita. Era il 1995, c’era un progetto della cineteca di Bologna per una mostra sul pre-cinema per il centenario del cinematografo. In accademia, con gli studenti si formò un gruppo per allestire un panorama di venticinque metri da montare su una grande piattaforma circolare per questa mostra.
Lidia:
In quella occasione, tra il pubblico internazionale, c’era Gillian Anderson, una musicologa che si occupava del restauro della colonne sonore del cinema muto, dirigendo l’ orchestra durante le proiezioni dal vivo, proprio come si usava un tempo. Di pari passo con la musica che lei componeva e le opere che io predisponevo per gli allestimenti è nato un rapporto speciale che si è consolidato nel tempo e dura fino ad oggi, cementato dal comune interesse al rapporto tra immagine e musica. Insieme abbiamo progettato alcune performance quali il Concerto di immagini e musica alla Foellinger Great Hall dell’Università dell’Illinois, Urbana-Champaign, nell’ottobre 2000, la Conferenza sul rapporto tra musica e immagine al Kranner Center for the Performing Arts- Università di Urbana. Immagine e suono sono intimamente collegati, amo l’opera e con l’orchestra di Parma abbiamo interagito con delle immagini con un’operazione pionieristica nel 2000. Durante l’evento “Musicondia”, un’orchestra, diretta da Gillian, suonava dal vivo mentre io proiettavo su un grande tulle le immagini dipinte a mano. L’orchestra illuminata entrava a pieno titolo nelle immagini. Gillian ha vissuto a lungo a Washington per poi spostarsi a Boston. Sono andata così spesso negli USA che, a parte la Florida, conosco quasi tutti gli Stati.
Nel 2003 ho realizzato, insieme a Gillian Anderson un cortometraggio, “Inganni”, poi programmato a Washington presso la National Gallery of Art, durante una mostra sul trompe l’oeil.
Posso dire che sono diventata una viaggiatrice per amore, vivo tra due mondi.
Scherzo con Lidia chiamandola la pittrice dei due mondi e lei mi parla del fascino che su di lei esercitano queste due realtà.
Boston mi ha sempre attratto, è una delle città più antiche degli Stati Uniti, c’è molta immigrazione italiana e si respira un’aria che mi ispira sempre con la sua affascinante archeologia industriale. Mi ricorda la Genova di quando ero piccola, tra i docks respiro ancora l’aria salmastra e legnosa di casa. In America tutto scorre velocemente, mi tocca andarci spesso, ho la fretta di recuperare delle cose prima che vadano perse. Mi piace il misto tra la visione romantica e quella cruda di oggetti di uso industriale, cerco di recuperarla in una chiave piena di atmosfera, riuscendo a fondere delle sensazioni intime con cose nate per uso commerciale.
A Bologna ho preso venti anni fa uno studio: un oratorio dismesso semi distrutto che in origine era stato un magazzino agricolo. Si trova in campagna poco fuori città ma lì ho lo spazio giusto per vivere e lavorare.
Era un luogo destinato a sparire, nessuno lo voleva, costava poco ed io, che avevo esperienza nel settore delle costruzioni, sono riuscita a recuperare il tetto, a restaurare la casa ricavando un open space con un soppalco dove dormire. È un loft tutto a vista, ci sono solo due porte, quella dello studio e quella della sala da bagno.
Ci vivo da sola la maggior parte del tempo, a parte quando viene a trovarmi Gillian, adesso mi fa compagnia una gatta, prima avevo un cane ma è impossibile fare la pendolare tra due Paesi con un animale. Ho dei cari vicini e la mia casa è ben collegata da un treno a Bologna, dove vado spessissimo, e a Ferrara, dove lavoro con una galleria.
Lidia ha smesso da poco di insegnare a Brera ma non sta mai ferma, dipinge, organizza le mostre, fa parte di alcune associazioni di artisti. Ha dei progetti da portare avanti a Bologna con altri dieci artisti e a Roma. Il rapporto con la musica è sempre molto vivo. La pandemia ha un po’ bloccato i suoi progetti, anche se lei, obbligata a stare a casa, ha prodotto moltissimo ricominciando anche a lavorare con delle incisioni. Dopo il primo periodo totale di clausura la sua compagna è riuscita a raggiungerla, anche lei ha utilizzato il lockdown per lavorare a tavolino con le partiture.
Le chiedo dei loro progetti futuri e Lidia mi risponde che Gillian dirige meno ma continua a lavorare con il MOMA di New York, lei è in contatto con alcuni critici, vorrebbe raccogliere alcuni capisaldi per ricostruire la sua carriera. Frequenta poco i social, ritiene che nel mondo c’è talmente tanto che è meglio stare un po’ defilati, la pittura va vista dal vero, le foto sono riduttive. Continua sempre a cercare ispirazioni:
Nella mia vita sono stata ispirata negli anni ’70 da Bacon, adesso tra i contemporanei mi piacciono Anselm Kiefer, Marlene Dumas, Kentridge e tanti altri. Amo anche gli artisti dell’ 800 e certi americani del secolo scorso che trovo ancora modernissimi. Il mio pubblico è composto da persone di cultura medio alta, aperto alle cose del mondo. I miei ammiratori non si fanno emozionare solo dai colori vivaci.- Perché fai dei quadri così oscuri?- Talvolta me l’hanno chiesto in occasione di alcune esposizioni. Io rispondo che le mie opere, come hanno anche constatato alcuni critici, hanno i colori impolverati dalla fuliggine del carbone e lo spazio trafitto da bagliori temporaleschi. Le mie visioni nascono dalla notte e dal buio ma, nonostante le tinte cupe e la ruggine affiorano sempre segni di speranza: parole di pace, il tricolore italiano che sventola, le impalcature intorno alla Statua della libertà in un restauro che riguarda la statua ma allude anche ad altro. Il mercato ha le sue leggi, a volte alcune richieste sono irricevibili, nel passato il mercato a volte mi tratteneva ma per me essere libera significa svincolarsi da esso. Sono stata fortunata, ho avuto galleristi impressionati dai miei lavori che mi hanno lasciato libera, a volte ho comunque accettato alcune cose estranee al mio genere che però potevano essere uno sviluppo per la mia opera.
Adesso l’arte a grandi livelli va molto bene, il mercato medio, quello a cui io appartengo è meno fiorente, anche se qualcosa si muove. Ho dovuto imparare a progettare le cose che mi servono, ho una manualità che mi permette di costruire degli oggetti, ho da poco costruito una scala, ho imparato sul campo facendo la scenotecnica.
Chiedo a Lidia di raccontare per il blog qualche episodio saliente della sua vita artistica:
Durante il periodo dell’’accademia, con un collettivo di pittori abbiamo occupato a Bologna una vecchia villa in rovina e cominciato a viverci. Ci siamo rimasti per venticinque anni, dapprima eravamo un folto gruppo, alla fine sono rimasta solo io. In questa villa che cadeva a pezzi ho realizzato le mie opere migliori, ho ricavato un grande spazio in una soffitta senza muri, piena di topi. Un giorno è venuta a farmi visita una storica dell’arte:
-Che bello, questo ambiente così bohémienne!- ha affermato. Prima del suo arrivo sono andata a controllare se ci fossero topi in giro, i gatti tenevano lontani i topi dalla casa ma nulla potevano lassù. Lei era tutta contenta di visitare lo studio di un’artista, mentre mi parlava mi sono accorta delle impronte di un topo sui colori freschi. Io utilizzavo una tavolozza fatta da una lastra di vetro, e mentre lei si guardava ammirata in giro io cercavo di distrarla. Non so se sono riuscita nell’intento, ma lei è andata via soddisfatta. Ho lasciato quello studio quando il Comune lo voleva vendere, stava cadendo in rovina, io avevo rifatto li solaio di una stanza ma i lavori non bastavano mai. Ho traslocato perciò nella casa dove vivo adesso rifacendola tutta. Mi piace costruire, al contrario della maggior parte delle persone adoro le ristrutturazioni, ho creato da un rudere un luogo divenuto bellissimo. In origine mancava proprio tutto. Un giorno sono venuta a vedere questo posto a cielo aperto con un’amica stilista romana: -Vieni ad ammirare questo posto che mi ispira!- entriamo e vediamo una luce magnifica, lei, alza gli occhi al cielo ammirata – Ma che bella questa illuminazione! Non si era accorta che non c’era il tetto! Per me la ristrutturazione è stato il periodo più bello della mia vita. Studiare come fare il bagno, i mobili, plasmare lo spazio, cercare di vederne le potenzialità è la mia vocazione, quasi più della pittura.
Nel tempo libero gioco a tennis, leggo, amo la saggistica, in particolare Erwin Panofsky, a mio avviso è il più grande storico dell’arte, ha scritto saggi su argomenti vari legati ad essa, poi mi piace Gombrich. A volte apprezzo la narrativa, durante il lockdown ho scoperto Murakami. Ho guardato alla pittura giapponese soprattutto durante un allestimento di una Turandot in Giappone e come Murakami mi interessa la contaminazione reciproca della cultura occidentale e di quella orientale. Mi piace il paesaggio verticale giapponese, amo la sua essenzialità, quella che ho sintetizzato nella mostra all’accademia di Brera “Scorie del Tempo”, che, come ha scritto Lorella Giudici, “altro non sono che i lacerti che la vita ha lasciato indietro, piccoli o grandi frammenti su cui il passato e il presente si sono infranti.
Montale affermava che non c’è distanza tra il millennio e l’istante. Come in un incantesimo, il tempo si è fermato in un’eternità carica di presagi, in una vertigine che trasforma le facciate dei palazzi veneziani o genovesi in muri invalicabili, gli antichi velieri in relitti scheletrici, gli alberi secchi come radici in desolati crocifissi e le vestigia di archeologia industriale in spettrali città dantesche”.
R.