Come eri vestita?

Una visita nel borgo di Lugnano in Teverina è sempre un’esperienza piacevole per la bellezza della sua Collegiata, l’incantevole piazzetta e i vicoli che regalano scorci sorprendenti. In più Lugnano è stata dichiarata ‘città che legge’, ospita il Premio letterario Lugnano in Teverina che è arrivato quest’anno alla sua decima edizione e arricchisce, nell’ultimo fine settimana di giugno, la vita di quello che è tra i borghi più belli d’Italia, di incontri con autrici e autori, libri ed eventi culturali. Da tre anni abbiamo la fortuna di partecipare, prima in occasione della presentazione dei due volumi “Donne con lo zaino” (Elliot, 2021 e 2023) e, quest’anno, con il mio saggio “Ogni altro sono io. Alberto Manzi maestro e scrittore umanista”  (Castelvecchi, 2024).

Quest’anno si è aggiunta una manifestazione particolarmente interessante: la mostra di Amnesty International “Come eri vestita?”, installata all’interno degli spazi del Comune. Si tratta dell’esposizione di una quindicina di abiti appesi che rappresentano quelli indossati dalla rispettive vittime di stupro. Vicino a ciascun vestito c’è la testimonianza scritta delle donne alcune delle quali sono state lette da Mara Quadraccia e Giancarlo Sgrigna in un evento molto commovente. Si può ascoltare la registrazione delle letture attraverso il QR vicino alle didascalie.

Se già il titolo è evocativo del trattamento vergognoso che viene riservato spesso alle vittime che denunciano e raccontano con pena il loro dramma, ritrovare questa insulsa domanda nelle testimonianze fa rabbrividire. COME ERI VESTITA? Il vecchio adagio sempre attuale sulla presunta provocazione femminile alla base delle violenze sessuali è smontato in questa carrellata esemplare di casi più disparati di stupro. Il camice della donna che pulisce di notte gli uffici e viene presa di sorpresa e violentata dal suo datore di lavoro o la tuta da ginnastica della ragazza di ritorno dalla palestra, sono due tra i tanti esempi di quanto l’abito indossato dalla vittima sia una misera giustificazione dei soprusi perpetrati da sempre sul corpo delle donne. Lo stupro è interclassista, interculturale, internazionale, intergenerazionale e avviene in ogni luogo e modo tanto da rendere iniqua la domanda posta alle vittime che già sono portate spesso a colpevolizzarsi semplicemente per essersi trovate senza difese, in una situazione inaspettata e potenzialmente letale.

La mostra ha dunque il grande merito di mostrare concretamente il paradosso dell’atavica convinzione che la vittima, in quanto donna, sia almeno in parte responsabile della violenza e l’abbigliamento sarebbe un elemento chiave per sostenerlo. Non si può restare indifferenti nel leggere le testimonianze scarne ma essenziali o guardare questi vestiti appesi al muro, senza vita, con il volto della donna rappresentato da una maschera bianca, come manichini senza potere sui propri movimenti. Penso allora che il messaggio debba arrivare alla maggior parte delle persone, nei vari ambiti, età, luoghi e modalità. Intervisto Patrizia Sacchi, organizzatrice della mostra, per le web radio RadioMir e RadioOne. L’intervista si potrà ascoltare lunedì 8 luglio dalle 21,30 all’interno del programma musicale Torno al Sud di Mario Masciullo ai link:

www.radiooneweb.it (cliccare su ” on air”)
o su:

Torno Al Sud, dove il jazz è di casa

In un macabro gioco di abbinamento, si può cercare l’immagine dell’abito e la relativa testimonianza tra quelle che riporto di seguito. Ma soprattutto, invito tutt* ad andare a visitarla e parlarne. Sono parole, immagini, oggetti, certo, ma dietro ci sono i pianti, le urla, il sangue, i dolori di tante donne umiliate doppiamente. Com’eri vestita?

 

Ci siamo allenate per tutto il pomeriggio perché in quel fine settimana ci sarebbe stata la partita e volevo fare bella figura. Avevo una tuta blu e stavo rientrando a casa, erano le sette di sera, mi hanno caricata su un furgone, volevo essere gentile e dargli delle indicazioni stradali. Mi hanno violentata e picchiata, poi buttata in un prato come si fa con un sacco di foglie secche. In ospedale, con prognosi di 15 giorni, un giornalista mi ha chiesto COM’ERO VESTITA e mio padre l’ha preso per un braccio e l’ha buttato fuori dalla stanza.

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Una famiglia di borghesi intellettuali, impegnati nel sociale con tanti amici che frequentavano casa nostra e con i quali facevamo lunghe discussione filosofiche,. Un clima gioioso e ricco di pensieri nuovi. Una casa grande e con molte stanza. Ha aspettato il momento giusto e il caro amico di famiglia mi ha spinto dentro una di queste stanze e mi ha violentata. L’ho detto a mio padre, lui l’hai picchiato e l’abbiamo denunciato. Per molto tempo mi sono isolata da questa famiglia, a lei ho dato la colpa, ma poi ho capito chi era il colpevole vero. COM’ERO VESTITA? Pantaloni e un maglione a collo alto. 

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Mi hanno costretta a sposarlo, era un uomo vecchio e per questo matrimonio ho interrotto gli studi anche se mi piaceva andare a scuola. Tutto sembrava un gioco, la festa di nozze, le luci e tu

tti che ballavano. La prima notte mi ha violentata, c’era sangue ovunque, ero spaventata eurlavo, voleevo tornare dai miei genitori, ma lui mi ha tirato uno schiaffo così forte che ho perso i sensi. Ogni notte, senza una parola, mi ha violentata e ogni notte ho pregato di morire. 

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Lavoravo in un’impresa di pulizie e la sera col mio carrello apssavo negli uffici vuoti. Avevo un grembiule azzurro, la mia divisa, stavo cambiando lo straccio per pulire i pavimenti….Non ricordo molto, solo una mano sulla bocca che mi impediva di respirare, questo senso di soffocamento mi annebbiava la mente e mi impediva di muovermi,. Lui addosso a me, conro la scrivania, ricordo il dolore che sentivo ovunque. Era il mio datore di lavoro.

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Finito il lavoro, peraltro un lavoro che mi piaceva molto, sono salita in auto per rientrare a casa. Saranno state le 22,30, era buio e sono riuscita a parcheggiare vicino a casa. Pochi metri…cerco le chiavi e in un atttimo vengo sbattuta per terra, la borsa e le chiavi, tutto in giro e lui che mi sta sopra e mi schiaccia il viso sul marciapiede. Urlo e provo a dimenarmi, tutto inutile, non mi sente nessuno. Ricordo le luci dei lampioni e quella breve, ma infinita, distanza che mi separava dal portone della mia casa. Indossavo una gonna, una camicetta e una giacca.

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Avevo 15 anni e lui era un amico dei miei gentori, una sera tutti insieme siamo andati a una festa; mi sono poi accorta di aver dimenticato alcuni addobbi e lui si è offerto di accompagnarmi a casa per recuperarli. Ha cambiato strada e da quel momento ho capito che stava succedendo qualcosa di brutto. Si è fermato in una zona isolata e mi ha struprata. Ricordo di averlo supplicato di smetterla, di aver pianto, ma ero bloccata da tutta quella violenza. Di ritorno alla festa ho fatto finta di niente, ha riso, scherzato e ballato; mi sono sentita sporca e umiliata come mai nella mia vita.

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Dopo una giornata passata a cercare un lavoro mi sono messa a letto a guardare il cellulare. Una coppia di coniugi mi aveva affittato un posto letto in cambio di qualche lavoro domestico. Ero così giovane…E’ entrato in camera e ha iniziato a toccarmi, mi teneva le mani, ma io scalciavo gli ho detto che l’avrei denunciato, che avrei parlato con la moglie e lui, invece di fermarsi, ha tirato fuori un coltello e, minacciandomi, ha fatto ciò che voleva. Ricordo il soffitto sopra di me e un grande vuoto dentro, ripercorro la mia breve vita e vedo solo sofferenza.

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Mi chiese un’informazione, voleva sapere dove fossero i box, glieli indicai , ma lui insisteva che era straniero e cnon capiva, mi pregò di accompagnarlo e così feci, avrei perso tempo a spiegare e poi sarei arrivata tardi al lavoro….Nel corridoio buio che separa i box mi ha violentata, avevo idei jeans con un difetto nella cerniera….e una maglietta blu.

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Era un mio compaesano voelva aiutarmi perché non avevo il permesso di soggiorno. Pulire la sua casa e curare i suoi figli mi rendeva felice. Dormivo per terra perché non c’era posto per me, diceva,non mi pagava e mangiavo gli avanzi. Quando la moglie usciva, iniziava il mio calvario: mi violentava e ogni volta che cercavo di scappare, mi picchiava. La prima volta che è successo indossavo un paio di pantaloni e un maglione.

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Sembrava un anziano saggio e dolce, parlavamo spesso insieme. Lo andavo a trovare e gli portavo le sigarette o il cioccolato, era una persona sola, niente amici né parenti. Pensavo di fare una buona azione dandolgli qualche attenzione, ma quel pomeriggio mi saltò addosso e iniziò a toccarmi ovunque. Provai schifo, vergogna, ribrezzo e mi interrogai a lungo sul mio comportamento e sui vestiti che indossavo: un vestito sotto il ginocchio a fiori.

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Ero a scuola per un corso pomeridiano, ero una ragazza introversa e sienziosa. Mi vestivo con maglioni e pantaloni larghissimi, almeno due taglie più grandi, mi nascondevano ed era quello che volevo. Quando sono andata in bagno lui mi ha seguita, ma non me ne sono accorta subito, mi ha violentata e mi ha lasciata per terra nel bagno della scuola.

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Una vita nel buio, una vita di impegno per essere considerata alla pari degli altri e, finalmente, una laurea in Legge. Un tailleur grigio, camicia bianca e così inizio il lavoro da sempre sognato, ma un collega mi ha violentata e, nel buio del mio mondo, mi ha sussurrato: sei una povera cieca…

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Festeggiavo un esame universitario particolarmente impegnativo, avevo un tubino appena comprato e con me c’erano le mie amiche. Ballavamo e ridevamo. Eravamo felici. Ero felice. Lui si è avvicinato, aveva i modi gentili, abbiamo ballato insieme e poi siam usciti per fumare una sigaretta. Nel giro i pochi minuti si è buttato sopra di me, era così forte che non riuscivo a muovermi. Un solo pensiero nella mia testa: “ora mi uccide”.

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Facevo la domestica e la baby sitter, lui era un padre amorevole e un marito attento. Non c’era posto, mi disse, dovevo dormire nella vasca da bagno. Mi ero appena licenziata e così ho accettato. La moglie era uscita per accompagnare il figlio a scuola. Stavo rifacendo il letto quando mi sono ritrovata con la faccia sul materasso, mi spingeva e mi tirava i capelli, non riuscivo a respirare sotto il peso del suo corpo. Non mi ha detto una parola, muto, mi ha violentata, mi ha picchiata e non ha detto una sola parola.

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 Lo conoscevo, faceva parte della mia compagnia, era considerato lo “sfigato”, timido e riservato, ma molto rispettoso. Ho accettato il passaggio a casam non era tardi. Si è fermato in un parcheggio isolato e ha chiuso tutte le portiere, era una belva con uno sguardo feroce, l’ho spinto via quando cercava di baciarmi, ho urlato, ma lui rea sempre più violento, il suo corpo mi bloccava…Mi ha stuprata e ciò che ricordo è la mia voce rotta dal pianto. Non ha avuto pietà prima e nemmeno dopo quando mi ha lasciata davanti a casa piegata in due dal dolore e dalla vergogna.

P.

 

Author: Patrizia D'Antonio

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