The Tangerinn è il bar di Tangeri che attirava i bohémien approdati nella città marocchina che, come Zona Internazionale, offriva un’area franca di tolleranza ed esotismo, libertà e possibilità: un ponte tra Africa e Europa, tra il Sud e il Nord.
Tangerinn è anche il nome del bar aperto a Reggio Calabria dall’immigrato marocchino Omar, padre di Mina, la trentenne protagonista del libro di Emanuela Anechoum. Il richiamo è appunto alla città di Tangeri, primo approdo nel viaggio di emigrazione di Omar, orfano di padre, che parte da Derb Sultan, quartiere povero di Casablanca, sognando di partecipare alla Maratona di Berlino. A Tangeri vive la sua prima tappa di un viaggio che gli costerà il prezzo del distacco, della solitudine, della capacità di adattarsi, per ottenere la libertà e la fierezza di realizzare un’attività in proprio e una famiglia ‘mista’.
Tangeri, ancora in Africa, ma già Altrove per Omar che cerca di sopravvivere come può in attesa di poter passare lo stretto e quel ponte metaforico, passaggio verso un altro continente dove inventarsi una vita diversa. A Tangeri incontra Rachid, un ricco gay che gestisce un hotel equivoco e che gli dà lavoro e amicizia finché non sarà pronto a recarsi in Germania.
Ho incontrato l’autrice del romanzo Tangerinn (E/O, 2024) il 29 giugno a Lugnano in Teverina mentre la giuria del Premio letterario, giunto quest’anno alla decima edizione, la proclamava vincitrice, tra gli altri interessanti romanzi finalisti. Non sapevo nulla del suo lavoro ma, quando durante la presentazione, si è parlato di Marocco, ho sentito una strana corrispondenza: ero arrivata due giorni prima da Casablanca. La presentazione a cura di Elisabetta Putini, curatrice del premio, e il dialogo con Daniela Carmosino vertevano soprattutto sull’annosa questione della ricerca dell’identità e dello straniamento provato dal vivere tra paesi e culture diversi. Non ho atteso la proclamazione del premio per procurarmi il libro presso la libreria nella piazzetta adiacente alla Collegiale di questo magnifico borgo e mi sono diretta da Emanuela Anechoum per una dedica a Chiara, l’amica che mi ha spinto a questa mia attuale avventura marocchina. Parlando poi con Emanuela del suo lavoro e delle sue origini, vengo a sapere che si è ispirata alla storia di suo padre, marocchino emigrato a Reggio Calabria. L’autrice però sposta il racconto inizialmente pensato come narrazione autobiografica di Omar, a quello di Mina, più congeniale da narrare per il suo vissuto personale. Emanuela ha lasciato infatti Reggio per Milano e poi per Londra dove ha iniziato a lavorare nell’editoria, attualmente vive a Roma. Come la protagonista del suo romanzo, si chiede cosa cerchi la sua generazione spinta ad abbandonare la sua città di origine (e il Sud Italia in genere), luogo che, anni prima, ha rappresentato per il padre (e tanti emigranti) l’approdo per ricostruire una nuova identità, nuove opportunità.
Se l’ispirazione per la parte di narrazione ambientata in Marocco le è giunta dai racconti del padre sulla sua infanzia e gioventù, l’intreccio del romanzo è una finzione basata sull’espediente narrativo della morte di Omar. Mina è costretta a lasciare Londra, dove ha fatto, come il padre, l’esperienza di straniamento ed integrazione in una realtà, una lingua e una cultura lontana da quella di origine. Mina è in cerca di se stessa, persa in una negazione e fuga dalla città e famiglia di origine e prova un forte disagio nel viaggio di ritorno in occasione del funerale del padre. Deve fare i conti con la sua fragilità e il timore di confrontarsi con la madre e la loro relazione irrisolta, con i conflitti con la sorella che aveva scelto di restare e accompagnare il padre nella gestione del suo bar, divenuto quasi un centro di accoglienza per gli immigrati. Mina si ripromette di restare pochi giorni, di riprendere presto il suo lavoro a Londra e l’appartamento condiviso con l’amica Liz, una giovane apparentemente ‘superintegrata’, suo alter ego, che prende a modello fino all’annullamento di se stessa.
Una volta tornata a casa, Mina è presa dal bisogno di comprendere il vissuto del padre, di urlare la sua sofferenza alla madre sempre distante, di recuperare la complicità con Aisha, la sorella, che passa dal confronto/scontro. «La libertà non esiste, esiste solo scegliere le proprie gabbie», risponde Aisha all’ennesima provocazione e discussione sul suo portare il velo e sul dedicarsi alla madre malata o alla gestione del bar a scapito dei suoi desideri. La falsa integrazione a Londra, le relazioni superficiali, la solitudine e l’insicurezza bruciano come delusioni per Mina che decide di partire per il Marocco e completare il suo percorso di conoscenza di sé attraverso la scoperta della storia del padre, del suo viaggio.
Questo primo romanzo ha la genuinità di una storia autentica, scritta con cura e giustezza. Un testo che corrisponde al lavoro intimo svolto dall’autrice nel trattare il tema complesso dello spostamento di identità nel vissuto di tanti migranti. La condizione di poveri immigrati stranieri e quella di giovani italiani privilegiati all’estero sono rappresentate dalle storie di Omar e Mina che si intrecciano nella relazione padre/figlia. Una relazione fatta di omissioni, di silenzi, della mancata trasmissione della lingua e della storia familiare e delle origini, di allontanamento e di fuga, di rimpianti e solitudini. Una storia esemplare che narra, con coraggio e sensibilità, dell’integrazione come processo complesso, continua ricerca e trasmissione generazionale.
P.