Marisa- Cantalice, Rieti, Roma
Durante una presentazione in libreria, una donna ci ha chiesto di scrivere sul volume da lei acquistato una dedica per sua madre, donna con lo zaino pieno di ricordi.
– Dovete assolutamente scrivere la sua storia– ci ha esortato.
Dopo qualche tempo ci è arrivata una mail dove la mamma aveva appuntato alcuni frammenti della sua esistenza:
Lo zaino per me è un po’ troppo piccolo per tutto quello che avrei da raccontare e ciò che ho vissuto è difficile da contenere in un piccolo scritto, comunque ci proverò.
Uno dei nipoti di Marisa andava a trovarla durante il lockdown e lei, davanti al camino, gli raccontava la sua infanzia, la guerra, il commercio…, è stato lui a invitarla a scrivere perché insieme agli altri nipoti potessero ricordarla quando non ci sarà più.
Lo scritto mi lascia la curiosità di conoscere di più questa impavida signora che ha tanta energia da trasmettere. E così ci siamo sentite: Marisa scrive per lasciare ai suoi cari il lascito speciale delle sue memorie e per noi donne con lo zaino ha voluto sintetizzare la sua vita:
Sono la più piccola di tre fratelli, due femmine e un maschio. I miei genitori erano venditori ambulanti, sempre in giro per i mercati di tutti i paesi del Lazio per guadagnare il necessario per mantenere la famiglia. Non stavano mai nello stesso posto per più di due giorni, quando partivano, di solito a settembre per vendere il vestiario invernale e in aprile per quello estivo, stavano via ogni volta almeno tre mesi. Quando andavano via cercavano di fare tutto di nascosto ma io ero sempre all’erta, tutto potevano nascondere ma non il rumore del furgone carico di merci. Qui iniziava il mio dramma: correvo a perdifiato dietro a quel furgone carico di merci e delle persone a me più care, correvo e intanto urlavo di fermarsi e per amor del cielo di portarmi con loro, alla fine sfinita mi buttavo al lato della strada dove c’era un solco per la raccolta dell’acqua piovana e piangendo mi rannicchiavo in quel luogo dove nonna Maria mi trovava ore più tardi e mi riportava a casa dove oltre a lei c’era anche il mio nonno meraviglioso, nonno Stefano. Nonno era tanto meraviglioso quanto sfortunato: all’età di 23 anni, lavorando in campagna, era caduto da una pianta, durante la raccolta delle noci, e rimase paralizzato alle gambe. Camminava con le grucce piuttosto rudimentali che nonna gli aveva foderato con dei vecchi stracci per evitare che si ferisse le ascelle. Nonno Stefano era la “televisione” di tutti noi bambini e dei vicini che la sera si riunivano a casa nostra, era un inventore di fiabe che raccontava facendole durare molto a lungo, a puntate come le telenovelas di adesso. Tutte le sue storie avevano una morale, non raccontava mai le stesse e ovviamente le faceva durare tanto stimolando il nostro interesse, a volte erano allegre, a volte tristi e commoventi, le persone che lo ascoltavano si asciugavano spesso qualche lacrimuccia. Il Signore lo aveva compensato per la sua disgrazia con il grande dono di saper raccontare fiabe.
Durante una partenza dei miei genitori e dei miei fratelli per il solito giro dei mercati, era il mese di aprile, era piovuto tantissimo e io correvo dietro al furgone ma stavolta nel fosso a lato della strada trovai tanta acqua e rimasi li immersa finché nonna Maria non venne a tirarmi fuori, ero infreddolita e con la febbre alta. Mi portò a casa vicino al fuoco e chiamò il medico che, arrivato il giorno dopo a cavallo, consigliò ai nonni di chiamare i miei genitori. Nonna Maria era disperata perché non sapeva come fare per avvertirli perché si spostavano continuamente. Fu una malattia abbastanza grave che mi tenne a letto per tre mesi. Intanto dentro al mio cuore si era insinuato un pensiero molto brutto, cioè che i miei mi lasciavano perché non mi amavano e io ne soffrivo tanto.
Nel 1939 scoppiò la guerra, avevo 6 anni, mio padre fu richiamato in servizio nei carabinieri e fu mandato nella caserma di Rieti. Feci salti di gioia perché pensai: “Adesso la mia famiglia non mi lascerà più!”
Ci trasferimmo da Cantalice a Rieti e lì, tra un allarme e l’altro, carri armati in tutte le strade, qualche bomba che ci cadde anche piuttosto vicino, inconsciamente ero felice…iniziai la scuola. Le aule erano tutte dotate di altoparlanti che trasmettevano bollettini di guerra continuamente. A questo punto i miei decisero di farmi cambiare scuola perché dovevo fare un lungo tragitto per arrivarci ed era pericoloso. Andai dalle suore dove imparai molto, anche a lavorare a maglia, facevamo i passamontagna e le sciarpe da far arrivare ai soldati al fronte. Il lavoro a maglia è diventato il mio passatempo costruttivo, e, con tutti i nipoti e pronipoti che ho, sferruzzo continuamente.
Gli allarmi si fecero sempre più frequenti, tutte le notti dovevamo scappare in aperta campagna, purtroppo per mia sfortuna mi ammalai di tifo, mia madre, per paura che contagiassi tutti voleva ricoverarmi in ospedale, ma papà non volle: “Come possiamo noi scappare quando suona l’allarme se Marisa è in ospedale?”. Quindi mi curarono a casa. Avevo sentito papà dire quella frase e quel tarlo che era entrato nel mio cuore, che sussurrava che i miei non mi amavano, sparì. Stare a Rieti diventava ogni giorno più pericoloso e tornammo sfollati al paese. I tedeschi avevano requisito tutte le scuole, e ce li ritrovammo come vicini di casa perché vicino alla nostra c’era un palazzotto dove avevano fatto il loro presidio.
Qui scrivo una delle pagine più dolorose della guerra che ho vissuto: come dicevo vivevamo circondati da tedeschi quindi sempre in allerta, in particolare la sera. I soldati si ubriacavano e spesso andavano a bussare alle case e se non si apriva loro la porta la sfondavano. Una sera, eravamo tutti riuniti accanto al fuoco io e la mia famiglia finalmente al completo, con noi c’era anche Willi, un soldato tedesco diventato nostro amico che si era arruolato per forza ma odiava la guerra. Sentimmo trambusto alla porta ed entrarono due parà dei corpi speciali tedeschi, gente della peggior specie, spietati, freddi, senza cuore. Avevano fazzoletto al collo e basco rosso, erano un po’ brilli, gettarono i loro baschi coperti di polvere con gesto sprezzante davanti ai piedi di mia madre, mio padre trattenne a stento l’istinto di reagire, strinse i pugni fino a che le nocche non diventarono bianche. Mia madre raccolse i baschi e, presa una spazzola, li pulì dalla polvere e glieli rese, lasciandoli interdetti. Intanto guardavano in giro e con insistenza soffermavano il loro sguardo su me e mia sorella, io ero molto cresciuta per la mia età. Willi li conosceva e con gentilezza e fermezza li convinse ad andarsene. Tornarono più tardi completamente ubriachi ma stavolta con le armi in pugno, Willi riuscì a trattenerli a stento per qualche secondo, giusto il tempo di farci un cenno per indicare a me e mia sorella di andarci a nascondere. Ci nascondemmo sotto il letto nella stanza accanto e mio padre, che era un uomo grande e grosso, si piazzò davanti alla porta facendo capire che se volevano entrare avrebbero dovuto prima ucciderlo. Pensate alla paura che in quel momento ci prese a tutti, erano tornati per noi, fu Willi (che Dio lo benedica) a salvare di nuovo la situazione e ad allontanarli con la scusa di andare a bere ancora, ma da un’altra parte. Questi soldati indietreggiavano dal fronte di guerra e stazionavano nei nostri paesi portando terrore e anche distruzione. Cominciarono i rastrellamenti e quindi gli uomini dovettero scappare, la maggior parte fuggirono in montagna, ma furono quasi tutti catturati e deportati, ne tornarono solo tre. Mio padre, mio fratello, i miei zii e altri sette non fecero in tempo a scappare perché i tedeschi avevano bloccato tutte le vie di accesso, ma fu una fortuna. Un dottore, che noi aiutavamo altrimenti lui e la sua famiglia sarebbero morti di fame, alloggiava nella canonica accanto alla chiesa principale del paese (San Felice da Cantalice). Al secondo piano della canonica c’era una stanza con un lucernario e così, mettendo in pericolo la sua vita e quella della sua famiglia, fece salire tutti attraverso una botola mimetizzata, compreso mio padre e mio fratello, purtroppo nella fretta non riuscimmo a farli salire con coperte e rifornimenti. In quella stanza si accedeva solo attraverso la botola quindi non c’era un’uscita secondaria, si saliva e si scendeva solo attraverso la botola. Attraverso il lucernario si accedeva ad un terreno dove i tedeschi avevano piazzato una mitragliatrice e da lì controllavano tutto il paese, perciò i rifugiati non potevano fare nulla che facesse il benchè minimo rumore, neanche tossire o starnutire, pena essere scoperti. Rimasero lì e l’unico modo per sentire il trascorrere del tempo era il campanile della chiesa che segnava le ore. Rimasero finché le loro forze cominciarono a cedere, così quella persona meravigliosa che tanto aveva rischiato per salvarli, decise di farli uscire prima che morissero di stenti e di freddo: li fece uscire uno alla volta facendoli prima sbarbare e rimettere un po’ in sesto, vennero fuori uno alla volta, chiacchierando con il dottore, piano piano uscirono tutti, non vi dico come erano ridotti, però salvi!
Finalmente i tedeschi se ne andarono e piano piano si cercò di rimettere insieme i pezzi della nostra vita e del nostro paese e ricominciammo a vivere. I miei tornarono ai loro viaggi e io ad aspettarne il ritorno. Vivevamo in una casa affittataci dall’ex medico condotto del paese di 78 anni, i suoi figli lavoravano a Roma e io passavo molto tempo con le loro figlie, una delle quali era insegnante di lettere e mi convinse a riprendere gli studi, avevo solo la licenza elementare. Così diventò per tre anni la mia insegnante fino a farmi prendere la licenza media. Il dottore e la moglie mi volevano molto bene, anche perché avevano perso una figlia della mia età. Restammo in quella casa fino al compimento dei miei 14 anni, poi ci trasferimmo a Vazia, una frazione di Rieti.
Lì il nuovo medico condotto di Cantalice e sua moglie, che nel frattempo erano diventati amici di famiglia, passata la guerra non mi abbandonarono, sapevano che ero spesso sola, perciò venivano insieme a un altro medico che lavorava con lui, il quale in seguito diventò il pediatra di mia figlia, mi portavano con loro a Terminillo dove facevano i medici condotti, visitavano i loro pazienti ed io e la moglie sciavamo, poi loro ci raggiungevano sulla pista da sci. Nel ‘50 abbiamo sciato fino a maggio, la mia adolescenza a Vazia è stata bella anche grazie a loro.
Poi ci trasferimmo a Roma dove mamma e papà aprirono un negozio di tessuti, io stavo in negozio con mio fratello, i miei continuavano a fare gli ambulanti e la domenica andavano a vendere i loro tessuti, tendaggi e tappeti anche a Porta Portese.
Conobbi mio marito andando a sciare. Io, mio fratello e una piccola comitiva di amici andavamo con il pullman a sciare, era il nostro sport preferito: in una delle nostre gite, arrivati a Terminillo, ci sorprese una bufera di neve così fummo costretti a restare sul mezzo e lì conobbi mio marito. I miei si opposero strenuamente, per avere il loro consenso ho penato tantissimo, infine con grande sofferenza da parte mia e sua accettarono la nostra unione, era un uomo buono, grande lavoratore è stato la gioia della mia vita e io ero la sua “Stellina”. Abbiamo avuto quattro figli, tre femmine e un maschio. Dopo sposata ho aperto un secondo negozio con mio fratello, avevo dentro di me il DNA del commercio, poi ci fu un’incompatibilità tra di noi e io e mio marito decidemmo di aprire un negozio solo nostro a San Paolo. In seguito anni dopo ci siamo spostati a colle Salario. Io lavoravo in negozio e mio marito costruiva impianti telefonici presso vari enti, predispose lui una centrale telefonica quando fu inaugurato lo stadio Olimpico e per questo ricevette un encomio.
Lavoravamo molto e grazie a tanti sacrifici abbiamo costruito a Cantalice una casa a tre piani dove ora vivono mia figlia a un piano e mio figlio in un altro, io al piano terra vado in estate e a Natale.
Quando mia figlia piccola frequentava le medie ci siamo trasferiti a Cantalice e a Rieti abbiamo avviato un negozio che ho tenuto aperto per 12 anni, finche, operatami alle anche, ho dovuto smettere di lavorare. Mi sono ritirata con molto dolore, per me il commercio, il contatto con le persone erano la mia vita. Solo con l’aiuto della fede sono uscita dalla depressione seguita alla pur necessaria perdita della mia attività.
Adesso abito da sola, ma non sono mai sola, sto bene perché questa casa a Rieti la scegliemmo insieme a mio marito quando tutti i figli si erano sposati e ci sentivamo troppo soli in quella grande casa, specialmente per viverci durante l’inverno. Lui già sentiva che se ne sarebbe andato e ci mise così tanta foga nell’acquisto della casa che mi meravigliai. Era ottobre, imbiancammo, comperammo i mobili, costruimmo il camino, progettavamo di trasferirci dopo Natale, ma lui purtroppo non dormì mai qui. Il primo dell’anno andammo in Abruzzo da mia figlia per festeggiare il compleanno di mio figlio, mio marito era felice. Dopo le feste la mattina successiva alla partenza di mio figlio, mio marito si alzò per preparare il caffè come aveva sempre fatto in tutta la nostra vita insieme, me lo portò come al solito a letto e con un bicchierino accanto con un fiore, se non c’erano fiori un ramoscello, era una dolce abitudine il cui pensiero mi commuove ancora. Dopo aver bevuto un sorso di caffè si spostò in poltrona e lì si accasciò e, una volta portato in ospedale, morì. Era il 2011.
Lui aveva sentito in anticipo che mi avrebbe lasciato sola e mi aveva messo al sicuro.
Dopo la sua morte sono andata per un mese a casa di mia figlia, ma non volevo intralciare la sua vita e né quella degli altri miei figli, perciò, presi coraggio, non volli essere accompagnata da nessuno, mi avviai da sola verso la casa che mio marito aveva voluto per me. Arrivata davanti al portone, non riuscivo ad aprirlo per la disperazione, in quel momento mi chiamò mia nipote da Vienna:” Zia, tranquilla, sono con te”. Con il telefono in mano entrai e scoppiai a piangere.
Mi fermo qui, ho raccontato solo un piccolo segmento della mia vita ma ho tanto altro da dire, di sicuro continuerò a scrivere per me, per i miei e per chi vorrà ascoltare una vecchia signora di 92 anni.
Marisa Capaldi