“Stranieri a casa nostra”, racconti

Non si annida, forse, dentro di noi, uno straniero radicalmente altro da ciò che pensiamo di essere? Qualcuno si poneva questa domanda e la letteratura è piena di storie che esplorano, in diversi contesti e modi, la dimensione della ‘estranietà’ da se stessi, dal dualismo Dottor Jackyll e Mister Hyde, a Lo Straniero di Camus. Gli esempi sarebbero molti fino ai romanzi di Ian MC Ewan che mettono spesso in scena personaggi la cui vita, pensieri e destini sono costretti a fare i conti con un’alterità suscitata anche da una minima variazione del contesto.

I nove racconti di Marta Aiello, contenuti nella raccolta dal titolo “Stranieri a casa nostra. Quando gli stranieri siamo noi” (le giraffe di Robin Edizioni, 2020), trattano il tema dello straniamento da se stessi e dall’ambiente, nell’intreccio delle relazioni domestiche e familiari dei vari personaggi. Marta è docente alla scuola internazionale di Bruxelles, dove si è trasferita da Catania due anni fa; artista a tutto tondo (cantante e pittrice per passione), scrive da sempre passando dal saggio su Bufalino “La verità plurale. Itinerario spirituale di Gesualdo Bufalino in dialogo con i francesi” a vari romanzi in attesa di pubblicazione.  Ho avuto occasione di leggere il libro appena uscito, in piena pandemia, e sono stata molto felice di poterlo presentare recentemente, insieme all’autrice, presso la libreria Piola di Bruxelles, punto di riferimento culturale per italiani e amanti della lingua e cultura italiana della capitale belga. 

Lo stile di Marta Aiello richiama la tradizione dei racconti surrealisti che vanno da Buzzati a Cortazàr e alla teoria dell’assurdo; il linguaggio è fluido, contemporaneo ma colto. La narrazione spesso segue il flusso dei pensieri del/la protagonista e, anche nei racconti dove il narratore è esterno, il lettore viene immerso in una sorta di ‘presa diretta’ dove ogni dettaglio, descrizione, evento, è funzionale per entrare nel mondo metaforico dello specifica storia. Come nel racconto La zanzara, dove l’insetto rappresenta il male, il pericolo che minaccia il bimbo affidato, sotto controllo giudiziario, ad un padre separato, ai limiti della paranoia. È l’occasione per far riflettere sul fragile confine tra normalità e follia, massimo estraniamento dal sé possibile. D’altra parte il narratore pone, riportando i pensieri ossessivi del protagonista che si affanna a cercare e uccidere la fastidiosa zanzara, la questione: “Dove si nasconde il male, e perché non possiamo eliminarlo almeno dalle vite dei bambini? Vero è che non sarebbe molto facile decidere il limite d’età in cui si può cominciare a subirlo, ma se per forza il male bisogna farlo o subirlo, si dovrebbe stabilire che questo può legittimamente accadere solo quando si è in grado di farlo a propria volta. Una partita alla pari, insomma. Del resto che male possono fare i bambini?“. E ancora: ” Non si ha mai abbastanza forza per opporsi al male, persino se questo minaccia i figli. Come si può pensare di fare un po’ di bene agli altri se già con i figli ci si arrende così presto? Proteggerli fin dove si può, poi affidarli alla vita e farsi da parte. Ma qul è il punto, la soglia sulla quale si passa dal rispetto all’indifferenza?

Il racconto Stranieri che evoca il titolo è quello che fa aderire il concetto di straniero all’immagine dell’immigrato. Infatti il protagonista, Enzo Cannizzo, è un vecchio catanese allettato, dalla mentalità tradizionalmente razzista la cui condizione lo porta a vivere la contraddizione di innamorarsi della sua badante rumena, Roda. La figlia di Enzo, Miriam, rappresenta l’altra faccia della medaglia: la gioventù impegnata e sensibile alle sorti degli immigrati tanto da trascurare il padre paralizzato per aiutare l’umanità ‘estranea’: D’altra parte “Siamo destinati all’incompletezza. La mia, la tua, quella del mondo intero, la vita non funziona. Bisogna rassegnarsi a dare risposte che funzionano male e poco. Anzi no, che non funzionano affatto.”. L’alienazione affettiva che ricorre in questi racconti emerge qui già nei ricordi dell’anziano che pur rifiutando gli stranieri, approfittava volentieri delle prostitute nigeriane a compensazione della sua desolazione familiare come quando si “arriva a casa sopportato come uno che arriva sul più bello a una festa a guastarla e si deve accollare per giunta l’umiliazione di far finta di non capire”. Se si incontrava con i colleghi si faceva finta di non conoscersi anche perché: ”Le verità non riconosciute dalle due parti, quelle che non convengono a nessuno, non esistono” .

I luoghi che fanno da scenografia alle vicende sono essi stessi degli ‘attanti’ in questi racconti perché capaci di agire indirettamente sui personaggi che provano l’estraniamento o l’appartenenza. In Il prato bianco, il protagonista (attraverso il narratore esterno) sottolinea: “Si può provare nostalgia dei luoghi anche mentre si è lì” pensando all’oretta rubata ai ritmi frenetici di una coppia con figlio piccolo per incontrarsi ‘diversamente’ nel solito appartamento che diventa ‘luogo altro’, in una messinscena segreta da rapporto clandestino. In Stranieri, la descrizione di Catania d’inverno e Catania d’estate non è la città tradizionalmente nota, ma appare carnale, sensuale, con i suoi odori e puzze, le bellezze e le sconcerie, le periferie e i centri commerciali. Questo è il racconto in cui l’essere straniero coincide anche con la non appartenenza ad un luogo, una città, un Paese, al non parlare la stessa lingua o avere lo stesso colore di pelle. La questione delle radici comuni e dell’identità viene ribaltata dalle storie personali dei personaggi, in questo caso la povera e casta Roda, che ripropone, a cinquant’anni suonati, gli innocenti giochi erotici con i cuginetti seducendo senza malizia il vecchio, in un reciproco scambio di aiuti. 

Siamo tutti stranieri potremmo affermare dopo la lettura di questo/i racconto/i nell’ottica del superamento di barriere, frontiere, lingue, religioni, in un brulicare di vite e  storie diverse. Veniamo allora al concetto di stranierità condivisa per vedere tutta l’umanità avente lo stesso diritto di cittadinanza perché in ogni casa, famiglia, relazione, la gioia e dolore hanno lo stesso valore e bellezza, in una rete tra viventi che può generare com-passione al posto dell’indifferenza, dell’allontanamento e del rifiuto. Mettersi nella pelle di uno straniero per provare la paura, il senso di inadeguatezza, la precarietà, è oggi un esercizio che può sembrare futile mentre era la realtà di molti emigranti italiani e di tanti immigrati di oggi. Per capire, bisogna provare la sensazione fisica di spaesamento, il disagio di essere stranieri a noi stessi, alle nostre case, ai nostri paesaggi, lingue, culture. Urge allora “andare, corpo e mente verso l’altro e l’altrove, perdere le certezze, coltivare le precarietà, nutrire dubbi, in un nomadismo tanto reale quanto metaforico che ci permetterebbe di valutare appieno il gusto dolce dell’incontro, della relazione vera, della mescolanza impura, il piacere di sporcarsi”. (Manlio Epifania, Orto Circuito Bari).

Nella modernità fluida spiegata dal sociologo Bauman, il nomadismo esistenziale diventa l’adattamento inevitabile, in opposizione all’elevazione di muri e agli irrigidimenti identitari, al senso di ineguatezza e di non appartenenza ad un mondo globale sempre più difficile da integrare per il continuo cambiamento che ci rende stranieri in seno alle nostre stesse case, Paesi, città.

È la filosofa Manuela Verduci, nel suo “Stranierità.Una filosofia dell’altrove”, che conia il neologismo spiegando la stranierità come la condizione propria dell’uomo contemporaneo. L’essere stranieri oggi è una metafora ma anche una situazione reale che condiziona il nostro modo di relazionarci, ripensando ‘l’alterità’. La stranierità diventa, per la filosofa, un «dispositivo del cominciamento», «feconda fonte di irrequietezza» e dunque esigenza di libertà. La libertà che cerca Marta Aiello come persona e come autrice attraverso i suoi personaggi. Le situazioni surrealiste inventate dall’autrice aderiscono alla definizione della filosofa: “La migrazione, intellettuale e geografica, l’essere sempre e comunque stranieri, è metamorfosi e strumento potenzialmente rivoluzionario, cesura nella ovvietà della vita quotidiana”

In questo senso la raccolta di Marta Aiello è un insieme di racconti filosofici nel senso di “filosofia come ‘disciplina di frontiera’ il cui compito è il tentativo costante di trasgredire i confini del suo stesso territorio”. L’autrice ha il coraggio, attraverso le diverse situazioni rese assurde proprio dalla loro stessa banalità, di porre interrogativi esistenziali che ciascuno di noi ha sperimentato, in modo diverso nel corso della vita. Il senso di stranierità dei protagonisti dei racconti è motivo di un’angoscia da cui cercano di liberarsi attraverso la consapevolezza o ad un agire che però non riesce a vincere la tendenza a ripiegarsi su se stessi. Viene da domandarsi con Claudio Monge, autore di “Stranierità: nomadismo dell’anima” se il “sapersi e sentirsi tutti “stranieri” non potrebbe essere di aiuto a cogliere l’altro nell’interezza e nella complessità della sua persona, senza ridurlo ai problemi che la sua presenza comporta?”. Nelle storie di Marta Aiello, i protagonisti sembrano non avere riscatto anche se i finali sono aperti e lasciano il lettore immaginare diversi possibili sviluppi. Si tratta di relazioni familiari, di coppia, di genitorialità in un’ottica dislocata che fa emergere l’assurdità di alcuni legami come per la protagonista di La missione archeologica“che si domanda: “Cosa c’è all’origine di queste sincronie di perfetta orologeria dell’infelicità?” mentre riflette sulla fine del suo matrimonio.

In Lo struzzo la protagonista, la signora Livia, è una donna borghese con “..una bella famiglia che non ti fa maledire l’arrivo del week-end o delle vacanze”  trascorre così i suoi giorni, “tra una casa stipata di roba e un deserto di affetti” . E sarà proprio un oggetto, uno struzzo impagliato, che catalizzerà il suo senso di ‘stranierità’ generato dall’infanzia e represso nella sua apparentemente felice vita familiare. Lo struzzo diventa un oggetto che ingombra fisicamente e psicologicamente la sua vita e quella dei suoi familiari tanto da metterne in pericolo la salute mentale e affettiva mentre la si sente ripetere “come.un disco rotto…la frase in modo formulare…un mantra eretto come un muro di incomunicabilità.…”.ma in quale casa, in quale negozio si potrebbe trovare una cosa del genere? No, non si può buttare”,

I figli e l’infanzia ricorrono in questi racconti evidenziando la relazione viscerale eppure distanziale che spesso coabita nella relazione genitori-figli. Così nel racconto La mamma, una giovane donna è alle prese con una tesi di fisica da terminare ed un neonato piangente da allevare, sostanzialmente sola. Le due figure femminili che potrebbero aiutarla, la madre e la suocera (il marito è fuori tutto il giorno per lavorare) la osservano dibattersi fra i pianti del bimbo per esprimere più o meno direttamente il loro giudizio negativo che lei ripete continuamente a se stessa: non sono una buona madre. C’è in questo racconto un’analisi acuta dellla prima infanzia, la ‘verginità’ delle prime scoperte, del potere di guida dell’adulto, dell’entusiasmo nel conoscere dei bambini da cui gli adulti dovrebbero attingere, in una relazione rovesciata in cui dovrebbero essere i genitori a mutuare lo sguardo franco e sincero dei bambini.

Per Marta Aiello la scuola è pane quotidiano: il liceo classico Spedalieri di Catania è luogo dove ambientato il racconto La lezione. Uno spunto autobiografico per trattare l’incongruità tra l’insegnamento della bellezza dei classici e della letteratura da parte di un’appassionata professoressa e l’edificio fatiscente. Per accedere nelle classi, ogni mattina, studenti e professori sono costretti ad immergersi in un fosso riempito dall’acqua piovana che ha formato una sorta di piscina. Tra altri avvenimenti surrealisti, si snoda il racconto della sedicenne Sofia, che pensa che gli insegnanti se lo meritano, sono una categoria resa debole dalla loro stessa passione” “Bocciati a vita, i professori resistono” ed ha la consapevolezza prematura di avere per maestri degli adulti che non hanno la dignità di ribellarsi”. È un’aspra denuncia sul poco interesse della società nel formare i giovani alla bellezza ed alla coerenza.

Se in La missione archeologica, il lento processo di allontanamento, usura e separazione della protagonista da suo marito interroga, in un’analisi minuzionsa e intimista, l’evoluzione della relazione matrimoniale, nel racconto Palestra “Virgin Active”, si seguono i pensieri e il tentativo di un marito separato di riprendere a vivere. Quando il protagonista vede sua moglie andarsene per una nuova passione, poi sua figlia o semplicemente la gente intorno a sé ancora capace di vivere e amare, si pone ripetutamente la stessa domanda: Come ci si riesce? Si iscrive allora alla palestra dove osserva gli sforzi di uomini e donne nel loro tentativo di migliorare, incrementare il loro aspetto fisico o il loro benessere. Arriva persino a provare una certa invidia di fronte all’amore provato da un padre nell’immergere in piscina il figlioletto disabile. Quando vede il bimbo nuotare con gli altri ed, in un certo senso, superare la disabilità nell’acqua, la sua domanda si amplia: Come ci riesce?…Forse basta sostituire il contesto, tuffarsi altrove per trovarsi a proprio agio.

Marta Aiello, nella sua vita, si è ‘tuffata’ altrove, in un altro Paese, in un diverso lavoro, in un’altra vita continuare dove esplorare la ‘stranierità’ e continuare a scrivere. Aspettiamo con curiosità di leggere il suo prossimo lavoro.

P.

Author: Patrizia D'Antonio

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