Bologna è una delle città italiane più stimolanti culturalmente, ma la meraviglia è massima quando si fanno scoperte inaspettate. Adoro passare anche solo qualche ora nel suo centro storico, come la scorsa settimana quando tornavo da una presentazione a Pesaro e, prima di ripartire per Roma, ho potuto incontrare i simpatici ed impegnatissimi membri del consiglio del CRAP (Comitato Ricerche Associazione il Pioniere) e trovarmi poi a flâner per la città con la mia amica Morena. Accorgendoci che non avremmo avuto il tempo di incontrare Lidia Bagnoli che inaugurava la sua mostra collettiva dònna sf. presso il Museo Civico del Risorgimento, Morena mi ha proposto la mostra su Vivian Maier al Palazzo Pallavicini. Sapendo che mi interessa il tema delle donne artiste e particolarmente la fotografia ‘di strada’, ho accettato con piacere, scoprendo la vita e l’opera di un’incredibile donna, fotografa per passione, bambinaia per professione.
La mostra raccoglie le memorabili fotografie della vita urbana di New York e Chicago, volti e scene presi dai quartieri popolari dove Vivian fotografava come se la strada fosse il suo teatro. Le sue ‘storie’ narrano scene e persone a partire da uno scatto che ritrae un dettaglio, una situazione, un gesto ordinario e ne fa qualcosa di eccezionale. Il suo sguardo sapeva catturare sconosciuti e persone comuni la cui distanza dall’obiettivo evidenzia le differenze e le incongruenze con immagini pulsanti e originali. Dal mendicante nero con il suo cane o la donna armena ad una manifestazione con un poliziotto (1956) alle celebrità quali Kirk Douglas alla prima di Spartacus nel 1960 e Audrey Hepburn alla prima di My Fair Lady nel ’64, Vivian Maier si concentra particolarmente su alcuni temi e dettagli: mani e piedi, l’infanzia, i giornali, l’architettura urbana, le forme.
Mi incanto davanti alle foto che, oltre al merito di testimoniare un lavoro artistico notevole, costituiscono anche una documentazione storica dell’evoluzione dei costumi in uno scorrere del tempo per immagini. E non solo perché i giornali sono un soggetto ricorrente nelle sue foto, con le notizie d’epoca in primo piano come “Bombs saved lives: Nixon..” del Chicago Tribun, ma anche per i dettagli delle foto di strada che rappresentano la moda, la cultura, le trasformazioni delle persone e degli ambienti. Penso alla foto del ragazzo con capigliatura e abbigliamento degli anni Cinquanta a Chicago che nutre dei piccioni nella mano e sullo sfondo le automobili e le insegne dei negozi tra le quali la gigantesca “Spaghetti”. O come, anni dopo, in uno degli autoritratti che giocano con le ombre (ma altri con gli specchi e riflessi vari), Vivian si riflette sui poster pubblicitari dei film tra cui Jaws 2 del 1978.
Mi chedo quali mezzi avesse questa artista e quale affermazione e carriera abbia potuto avere in quegli anni in cui la fotografia stessa era in ascesa e poi in trasformazione, così mi documento leggendo i pannelli esplicativi. Ecco qualche interessante nota biografica:
Vivian Maier nasce a New York nel 1926 da padre americano di origini austriache e madre francese che si separa presto dal marito dopo aver avuto due figli: lei e suo fratello William. Con la madre vive alcuni anni in Francia ma poi nel ’40 ritornano a New York per occuparsi del fratello uscito dal riformatorio, ma poi la famiglia si separa definitivamente. A quattordici anni Vivian inizia a lavorare in una fabbrica di bambole e vive con un anziano medico di famiglia nel Queens. Nel ’50 eredita la casa di famiglia della madre, in Francia, dove si reca per la vendita. Ci resta un anno e inizia a fotografare paesaggi e residenti. Quando torna a NYC, l’anno dopo, acquista una Rolleiflex con i suoi risparmi di badante e migliora la qualità delle sue foto. Assicurandosi il lavoro come bambinaia, viaggia con le famiglie di cui si occupa a Cuba, in Canada e nel West ampliando i suoi soggetti fotografici. Dopo aver accompagnato in tour il Mary Kay Trio come tata dei figli dei musicisti, si ferma a Chicago a lavorare per molti anni anni con la famiglia Gensburg dove allestisce una camera oscura in un seminterrato. Continua la sua attività di fotografa ‘di strada’ nei giorni di libertà e durante le vacanze, sperimentando e sempre con un tocco originale. Prende sei mesi di congedo per fare il giro del mondo da sola, tra il 1959 e il 1960: Filippine, Thailandia, India, Yemen, Egitto, Italia, Francia nel suo paese d’origine, a Champsaur dove gira in bicicletta per i dintorni. Dal ’67 all’80, continuando sempre a lavorare con altre famiglie, acquista una Leica e inizia la fotografia a colori ed esplora altri mezzi artistici quali i film 8 e 16 mm. Muore nel 2009, a 83 anni, a Chicago, tra difficoltà finanziarie ma sostenuta dai figli dei Gensburg negli ultimi anni.
Non deve essere stata una vita facile quella di Vivian. Tra rinunce e compromessi, è sempre riuscita però a portare avanti la passione per la fotografia. Un’arte piuttosto costosa all’epoca che richiedeva materiali e una ‘stanza tutta per sé’ e per di più oscura, certamente non facile da ottenere quando si fa la bambinaia.
Insieme a Morena compariamo le 150 fotografie originali e ammiriamo quelle che ci hanno più colpito: la selezione è difficile per la poliedricità dell’opera. Mentre le mostro le mie immagini preferite, che spaziano nelle sei sezioni tematiche, trovo una foto di cui non ricordavo il nome dell’autore quando l’ho vista sulla copertina del romanzo Dove non mi hai mai portata di Maria Grazia Calandrone. Collego l’immagine del particolare della schiena (pantaloni e gonna a righe) di una coppia che sembra darsi furtivamente la mano con il romanzo che ho letto recentemente mentre votavo la decina del premio Strega con il mio gruppo di lettura della BIblioteca Mameli di Roma. Una fortunata associazione: una foto bellissima per un romanzo davvero apprezzabile; il nesso è nel gesto che rappresenta un contatto, uno sfioramento quasi celato e che ben si accorda con la storia d’amore impossibile (e vera!) raccontata nel libro.
Incuriosita da questo intreccio tra la street photography di cui Vivian Maier è stata un’antesignana, i libri e i viaggi, mi documento ancora sulla vita di questa artista il cui lavoro è rimasto sconosciuto fino alla sua morte ed è stato portato alla luce quasi per caso: una storia nella storia. Due anni prima che morisse infatti, nel 2007, il giovane John Maloof, figlio di un rigattiere comprò ad un’asta il contenuto di un box espropriato perché l’affittuaria non pagava il canone da anni. Tra questi oggetti, Maloof trovò una cassa contenente centinaia di negativi e rullini ancora da sviluppare che lo attrassero perché cercava immagini su Chicago, poche all’epoca. Iniziò così una ricerca sull’autrice di queste fotografie e sulla sua vita che documentò pubblicando e valorizzandone l’opera post mortem.
Penso allora che dobbiamo essere grati a chi riesce a far uscire dall’ombra e a divulgare il lavoro di tante donne che meritavano riconoscimento e successo ma che, per le loro condizioni e carriere, non sono riuscite ad ottenerlo. Penso ai contributi di tante scienziate, scrittrici e artiste come Vivian Maier. Anche per questo è bene visitare questa mostra, aperta fino al 28/01/24, un buon motivo per andare a Bologna.
p.s. La mostra è organizzata e realizzata da Chiara Campagnoli, Deborah Petroni e Rubens Fogacci di Pallavicini srl con la curatela di Anne Morin di DiChroma Photography sulla base delle foto dell’archivio Maloof Collection e della Howard Greendberg Gallery di New York.
P.