Il rombo di una FERRARI

Federica Morellini, Abbadia san Salvatore

Ho sentito parlare per la prima volta di Federica in occasione di una presentazione ad Abbadia San Salvatore. Nella sala c’erano sua sorella Licia e un gruppo di amiche fedeli. Una di esse voleva leggere un pensiero in suo omaggio, ma la commozione le ha impedito di leggere. Mi sono offerta di farlo io al suo posto e ho letto l’introduzione al libro di Federica “ Io, Licia e l’oscuro”. L’emozione ha colpito anche me, tanto che nel pronunciare il suo cognome, ho detto Ferrarini invece di Morellini. Si dice che i lapsus indichino sempre un retropensiero. Pronunciare Ferrari (ni) per me forse significava rievocare il rombo che le ruote della sua carrozzella, al pari di una Ferrari, si fanno sentire ancora oggi, a distanza di sei mesi dalla sua morte. Mi informo della vita di Federica e sua sorella mi parla di lei cominciando dal loro impegno.
 Il libro è nato da un impedimento.
Ogni anno le due sorelle organizzavano un evento per raccogliere fondi principalmente destinati all’associazione “RuotaAbile onlus”. Si trattava di cene di gala, strampalate lotterie con premi simbolici, contest sui social. L’anno in cui Federica ha avuto ripetute polmoniti e le sono stati interdetti eventi esterni, ha cominciato a scrivere e quello che è nato come un passatempo, è divenuto un libro il cui ricavato ha permesso, ancora una volta,  di finanziare l’Associazione.
Insieme hanno viaggiato molto e Federica, che sapeva che Licia soleva sempre compilare un diario di bordo dei loro viaggi, le ha chiesto di utilizzare questi resoconti per raccontare di loro due e del mondo… Ne è scaturito un volume che, pur semplice nella scrittura, è estremamente toccante nei contenuti. Leggere cosa lei è riuscita a fare durante i suoi anni di malattia è un’esperienza necessaria. I proventi del libro sono stati devoluti totalmente in beneficenza, anche l’editore e il grafico hanno rinunciato al loro compenso.
L’associazione è composta da persone colpite da malattie neurologiche degenerative.  Quella di Federica rientra nella classificazione della distrofia muscolare. L’organismo colpito dalla malattia non permette che si riformino le cellule muscolari, pertanto, una volta persa una funzione, non la si recupera più. Federica ha cominciato dapprima con debolezza negli arti inferiori,  per poi passare a non poter muoversi senza una sedia a rotelle, poi la debolezza si è estesa agli arti superiori.  Nonostante la difficoltà nel muovere le braccia lei riusciva a manovrare il suo joy stick e ha lottato da subito per condurre una vita semi indipendente. Negli ultimi anni purtroppo non riusciva a deglutire, poi si è ridotta la capacità respiratoria ed è sopraggiunta la fatica a parlare così Licia è divenuta la sua voce. Federica affermava:
Non ho la presunzione di insegnare qual è la formula per vivere, solo dire come io ho reagito a questi limiti.
Quando girava per le scuole per parlare dei problemi suoi e dell’associazione di cui faceva parte, riusciva a diffondere un messaggio di speranza ai ragazzi con problemi di vario tipo, da quelli più gravi a quelli propri dell’adolescenza.
Guardate me– diceva –si può vivere bene con i propri limiti, se l’ho fatto io possono farlo tutti. Adesso che Federica non c’è più, Licia continua a divulgare il suo raccontare di sua sorella:
Federica viveva una vita normale, praticava sport, sciava, usciva con gli amici, non c’era stata nessuna avvisaglia della malattia. È iniziata con una debolezza e fatica nel compiere delle attività come salire le scale o camminare. Eravamo per strada, abitando in montagna , eravamo abituate ad affrontare vari dislivelli. Io notavo che faticava a tenermi dietro. “Vai avanti tu, io ti raggiungo”, mi ha avvertito. Da lì è cominciato tutto.                                                                          I miei genitori erano preoccupati per lei. Federica, nel pieno del suo splendore, totalmente immersa nello stile anni 90, short e minigonne di pelle, scarpe con zeppe altissime e capelli rasati, contrastava con quella apatia e debolezza che accompagnava ogni movimento.  Sono iniziati gli accertamenti medici, dapprima semplici analisi dalle quali sono subito emersi dei valori sballati. Dopo un percorso tortuoso, è venuta fuori la diagnosi. La sua malattia a tutt’oggi non è classificabile, non conosciamo la sua esatta denominazione, ma qualsiasi sia il nome del suo male ci hanno detto subito che non solo non c’era nessun tipo di cura ma nemmeno un modo per rallentarla.
Scoperta la malattia, per tutta la famiglia è stato uno shock, dapprima mamma è caduta in una spirale nota a chi affronta una tale terribile sentenza e affronta proposte di vario tipo: medicine miracolose, guaritori in ogni dove, persino in Brasile e in Israele. Ad un certo punto Federica ha detto:
“Fermi tutti non fatemi sperare, ogni volta sto peggio, devo adattarmi e vivere velocemente tutto ciò che posso fare in questo momento”.
Dopo i vari viaggi della speranza, Federica ha scelto di affidarsi ad un medico di una clinica bolognese, il primo che le aveva diagnosticato la malattia in modo crudo dicendo che potevamo girare, fare ciò che volevamo per ricercare miracoli, ma la malattia era quella e dovevamo rassegnarci alla mancanza di cure. Avremmo potuto però seguire un percorso per cercare di vivere la vita al meglio con l’aiuto di ausili medici, controlli periodici, capacità di adattamento e voglia di vivere questa vita se pur diversa. Abbiamo sposato questa filosofia e seguito detto percorso.
Io inizialmente avevo staccato le pagine dell’enciclopedia che descrivevano la malattia, cercavamo tutti in famiglia di nascondere come potevamo la gravità della situazione ma lei aveva capito e ha cominciato un approccio diverso alla malattia.
 Abbiamo iniziato perciò a rispettare il suo volere. Abbiamo fatto costruire una casa dove lei viveva al piano terra, io al piano superiore, affianco babbo e mamma, intorno il giardino che abbraccia le tre abitazioni e che ha ospitato cene, aperitivi, serate conviviali. Il luogo preferito di Federica, dove spesso mi affaccio e vedo, nel salotto en plein air, Roberta, la fisioterapista, carissima amica, “l’altra sorella” come l’ha sempre considerata, seduta sulla poltrona, lì dove erano solite conversare, apparentemente sola, di fatto ancora a “fare due chiacchiere” con Federica.  Partendo da questa casa, divisa in tre ma in pratica un tutt’uno, che abbiamo condiviso ogni momento e fatto un fronte comune contro un destino ingiusto ma che sentivamo di poter modellare insieme.
Il fatto terribile era la progressione, si doveva andare sempre oltre, un adattamento dopo l’altro perché Federica potesse girare con la sua sedia, togliere i mobili d’intralcio, poi eliminare i gradini e poi ricominciare con altri lavori essenziali per offrirle autonomia nei suoi movimenti.
È proprio la casa l’ultimo progetto sul quale eravamo concentrate. Coscienti del fatto che muoverci e viaggiare sarebbe divenuto sempre più complicato, abbiamo pensato di rendere più accogliente e aperta verso l’esterno la nostra abitazione. “Se non sarà possibile viaggiare per il mondo, almeno che il mondo possa entrare in casa nostra”. Durante un viaggio a Miami, abbiamo soggiornato in un appartamento con delle grandi vetrate, lei è rimasta colpita dalla vista che offrivano le finestre sull’oceano e sullo Sky line della città.  Al nostro ritorno ad Abbadia abbiamo contattato un architetto, deciso di abbattere un’intera facciata della casa per ricostruirla in vetro: avremmo così potuto portare l’esterno di casa dentro. Abbiamo sognato e messo in essere quest’idea meravigliosa: sognavamo che, già da questo inverno, Federica avrebbe potuto vedere, pur rimanendo a casa, una fetta di mondo fatta di albe suggestive, di luci serali che illuminano le facciate in pietra del centro storico, della vallata su cui svetta la torre di Radicofani e la neve sui tetti del paese.
Federica prima della malattia lavorava in un negozio di abbigliamento, poi lei e il marito hanno aperto un bar, dapprima era al banco, poi si è spostata alla cassa, in un primo tempo era seduta, poi in piedi, finché un giorno ha dovuto, suo malgrado, smettere di lavorare.  Un giorno il marito ha deciso di dare il bar in gestione per stare vicino alla moglie e non perdere neanche un momento di vita insieme.  Dino, questo il nome del marito, era il suo fidanzato già prima della malattia. È lui che ha voluto fortemente che si sposassero. Ed anche la cerimonia è stata particolare. Poiché lei aveva difficoltà ad alzarsi dalla sedia per poi rimettersi seduta, la cerimonia si è svolta interamente in piedi.
Federica amava molto viaggiare prima della malattia e quella dei viaggi è continuata ad essere una priorità. Era lei a organizzare le mete e gli itinerari, li costruiva secondo le sue esigenze, contattava le strutture e ideava dei tour. Il viaggio è stato al centro della vita di Federica, della nostra vita. Lo zaino appeso al retro della sedia a rotelle con quello che era il nostro kit: un impermeabile enorme che contenesse lei e la sedia nel caso di pioggia improvvisa, cannucce per bere – non poteva farlo in altri modo-, da quando non poteva deglutire i “pasti sostitutivi”, il tutto mischiato a ciò che una donna ha nella propria borsa, compreso l’entusiasmo. È con questo zaino che abbiamo a nostro modo viaggiato per il mondo. Abbiamo trovato tante mani tese che ci hanno aiutato a salire gradini, a superare barriere, a vivere avventure inaspettate e così lo zaino si è man mano riempito di esperienze, di emozioni, di sentimenti.
Federica è morta a 49 anni,  sei mesi fa, con tante difficoltà ma ancora di più con la voglia di fare. Io sono alla ricerca dello spirito giusto per coltivare ancora i progetti con i quali è sempre vissuta e portare avanti le imprese e le iniziative che hanno caratterizzato la sua vita, in particolare quelle rivolte al prossimo.
Lei aveva un’idea e io la assecondavo, cercavamo sempre sfide importanti: un conto è dire faccio un viaggio in un villaggio, altro è riuscire a realizzare comunque grandi sogni con dei limiti così importanti.
In questi giorni mi sto allenando per affrontare , anche quest’anno,  la “Salitredici” una corsa in salita di 13 Km che parte da Abbadia San Salvatore e raggiunge la vetta del monte Amiata. Negli ultimi anni l’abbiamo affrontata con un team di volontari che a rotazione hanno spinto Federica sulla sua sedia lungo questo percorso che si snoda sotto la faggeta. Lo slogan stampato sulle maglie è  “insieme si può scalare una montagna”, il messaggio vuole essere un invito ad abbattere le barriere sia architettoniche che mentali .
Abbiamo trascorso gli ultimi giorni di Federica in isolamento a causa del Covid. In quei giorni abbiamo progettato la festa per il suo cinquantesimo compleanno. In questo caso, più che una condivisione è stato un monologo che ho tenuto, proponendo a Federica, sempre più debole, un’idea, poi cambiandola e poi un’altra. La decisione ultima era quella di noleggiare un pullman a due piani e ospitare parenti ed amici in un tour. Federica non è arrivata a compiere i suoi cinquanta.
Il suo breve testamento termina così “ricordatemi con una festa dove tutti sorridono “. Quale migliore occasione se non i suoi cinquant’anni “ per sempre”? Perciò nel week end vicino alla data del suo compleanno, nonostante lei non fosse più con noi per festeggiare il raggiungimento del suo mezzo secolo di vita, abbiamo organizzato un week end a lei dedicato.  Ci sembrava limitativo prendere un pullman così una cara amica ha reso disponibile la sua azienda vinicola a Montepulciano. Eravamo in una sala da cui scorgevamo i vigneti appositamente illuminati dedicando le luci ai suoi cinquant’anni mancati. Il luogo era pieno della tanta gente che la ama, compresi i suoi amici speciali . E il ricordo di Federica, la sua energia ancora viva, sono stati il collante tra persone diverse sotto più punti di vista, accomunate da un sentimento unico, a dimostrazione che, anche situazioni diametralmente opposte, possono convivere e c’è sempre un motivo per sorridere anche quando proprio non sembra possibile.
Licia non ha mai visto come sacrificio Federica, sostiene invece che ha reso la sua vita particolarmente bella e che, anzi, Federica ha trasformato la loro esistenza,  che poteva essere vissuta come una tragedia, in un capolavoro.
Era una calamita, aveva tanta voglia di vivere e di fare. Quando si stava con lei si stava bene, mandava via qualsiasi problema. Io lavoro in un’agenzia immobiliare, quando in ufficio mi arrabbiavo o avevo un problema, mi bastava passare da casa, stare con lei un po’ e mi tranquillizzavo.
La sua voglia di vivere mi ha reso più ricca.
Talvolta mi chiedo se senza la sua malattia avremmo avuto lo stesso stile di vita, lo stesso meraviglioso rapporto che ci ha fuso quasi ad essere un’unica persona .
Non so rispondermi, non lo so, so solo che Il dopo Federica è un vuoto incolmabile , anche perché poco prima della sua scomparsa mia madre ha avuto un infarto fulminante.
Eravamo una squadra al femminile, non voglio certo sminuire il ruolo degli altri ma noi tre eravamo imbattibili.
Mamma pensava alle cose materiali, noi non dovevamo preoccuparci dei pranzi, dei ragazzi, lei ci supportava in tutto ciò che riguardava la parte pratica. Io ho due figli di 23 e 25 anni, mi dicono che hanno sempre pensato al concetto di mamma come una figura più complessa formata da nonna, zia e me insieme. Tutte e tre siamo riuscite a vivere sempre in modo sereno, a casa nostra, nonostante la malattia,  si respirava leggerezza.
La morte di mamma ha indebolito entrambe.
Adesso Licia sta cercando di portare avanti il libro “Io Licia e l’oscuro”, che nasce da una pagina fb dove Federica scriveva le cose che faceva. In paese le dicevano tutti di raccogliere in un volume i racconti di vita. Lo stimolo delle persone che la leggevano l’ha spinta a portare avanti le sue attività, tra le quali una raccolta:” Il Natale Sospeso”, per organizzare la spesa per chi ha necessità. Ogni anno cambiano il contest, l’ultimo in ordine di tempo è stato  “chi fa il dolce più bello?” Per pubblicare la foto della propria opera si versava una piccola quota per una raccolta fondi da distribuire alle associazioni famiglie per la spesa. Anche quest’anno hanno portato avanti questa iniziativa.
Io sono la persona più simile a lei, eravamo in sintonia, pensavamo le stesse cose. Non ero accondiscendente perché lei aveva un problema. Lo ero perché condividevamo naturalmente gli stessi pensieri.
Per le persone che hanno dei limiti è importante avere un rapporto alla pari dove si sta insieme perché si sta bene. Federica rifuggiva dal pietismo.
La prima cosa quando si alzava era vestirsi, truccarsi, curare l’abbigliamento per non lasciarsi andare. Federica, nonostante i suoi limiti, dopo tanti anni impiegati presso la Asl, ultimamente mi accompagnava in ufficio occupandosi delle prenotazioni online di case vacanza, così condividevamo anche il tempo lavorativo.
Sembrava una principessa sulla sedia, si faticava a pensare alla sua malattia. Ha sempre fatto terapia per continuare ad avere una buona postura.
A Bologna il medico prescelto da Fede, Marcello Villanova della clinica villa Bellombra, sempre rimasto a nostra disposizione,  purtroppo non ha una cura, ma nonostante ciò ci ha insegnato ad utilizzare tutti gli ausili che potessero migliorare lo stile e l’aspettativa di vita e soprattutto a curare i rapporti tra i pazienti e tra caregiver. Questo suo modo di portare avanti la clinica e i pazienti è stato la nostra filosofia. Abbiamo gestito questa cosa oscura cercando di vivere al meglio.
Nel week end dedicato a Federica alcuni ragazzi della clinica con malattie diverse ma invalidanti sono venuti, chi in sedia a rotelle, chi con il respiratore. Vederli mi ha aiutato tanto, in quei giorni ho capito che stare con loro mi restituiva la normalità di prima.
Tornando ai viaggi, io che in passato avevo un’agenzia di viaggi, quando accompagnavo le persone chiudevo il viaggio con un mantra:- Non sono le persone che fanno viaggi ma i viaggi che fanno le persone. – Perciò ringrazio i parchi americani, Zanzibar, Miami, i paesi africani, la gente che abbiamo incontrato anche nei percorsi più brevi o durante i periodi stanziali nel nostro paese, per avere contribuito a rendere la vita di mia sorella, se pur breve, ricca.
Una volta ammalatasi di calcoli ha convinto un medico reticente ad operarla, è morta dopo 10 mesi dall’intervento ma io ho ringraziato ugualmente il chirurgo:
– Federica è morta, grazie dottore, in questi 10 mesi, casa quasi ristrutturata, viaggio fatto, tante emozioni vissute, ne è valsa la pena.
Licia

Da quando ho parlato con Licia e letto il libro di Federica penso sempre al mio errore iniziale, per me le due Morellini saranno sempre Ferrari,  le rotelle delle carrozzine della loro associazione rombanti e agguerrite come macchine da corsa

R.

Author: ragaraffa

Blogger per passione e per impegno, ama conoscere e diffondere le voci delle donne che cambiano.  

One Reply to “Il rombo di una FERRARI”

  1. Stefano Piergentili says: 07/08/2023 at 5:50 pm

    Un racconto carico di forza morale, trascinante al di là della vicenda umana.
    Grazie Federica
    Grazie Licia
    Grazie Raffaella
    Stefano P

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