Riceviamo il racconto autobiografico “America” della nostra amica donnaconlozaino Erminia Pascucci che condividiamo con piacere. Il racconto fa parte della raccolta “Anatomia di un sogno”….
“In quel tempo, mentre tutti andavano in Oriente, tornavano dall’Oriente, danzavano come Shiva il terribile e bruciavano incensi di dubbio profumo, io sognavo l’America.
L’America, per me, era la musica che amavo, i racconti vagabondi che leggevo da ragazzina e quelli a fiume di parole di Corso e Kerouac, i film dentro e fuori da Hollywood, la curiosità di vedere come saremmo finiti tutti noi. Perché il sole nasce a Oriente ma poi è lì, oltreoceano, che finisce, una bella metafora, vediamo un po’ come saremo da grandi.
Il Paese è grande davvero, lo vedi appena arrivi: le macchine, i carrelli della spesa, le confezioni di latte, gli umani per strada, i viali, i culi di chi mangia schifezze a ogni ora, tutto enorme. E con così tante verità e illusioni di verità che ti chiedi subito quale America stai vedendo. Io ero finita a San Francisco, che è un po’ come guardare la realtà attraverso un
caleidoscopio, tanti bei vetrini colorati in movimento, vedi una figura compiuta e subito si frantuma in nuove schegge colorate. Tutto a San Francisco era ‘carino’: le casette vittoriane, le coffe house luminose, l’oceano ventoso, i parchi assolati, le persone gentili. Tutto eeeasy. O quasi. I neri, per dire, erano piuttosto incazzati, e come dargli torto. Prima lezione: mai sedersi nella parte posteriore di un bus, quella dove erano confinati fino agli anni ‘60, veniva presa come una provocazione, partiva una girandola di insulti che all’inizio non credevo diretti a me, che del resto ne capivo solo la metà, ma ‘white bitch’ era facile, messaggio ricevuto. Ho letto tutto Malcom X! avrei voluto gridare, C’ho il poster di Angela Devis al posto della madonna di Pompei! Ma non dissi nulla, imparai presto a sedere vicino al conducente e a non dare
nell’occhio, zitta e sguardo alla strada, ché non ero in missione per conto di Dio e poi, potevo mica risolvere i problemi razziali tutto da sola. No, MalcomX non mi ha aiutato un granché, peccato, avevo un sacco di
belle citazioni pronte. Se i neri erano arrabbiati, i biondi locali in compenso erano tutti molto cool. Amichevoli, colorati, effimeri, cultura pochina, tanti sorrisi, empatia in dosi omeopatiche e di stampo protestante, E poi Frisco, si sa, è il paradiso gay. Condividevo la mia bella casetta vittoriana di Height Ashbury con una coppia di amici gay parigini,
compagni degli studi di teatro in Francia, e con una gayssima ragazza di Tolosa tutta anfibi e gilet. Erano stati loro a insistere «Vieni che mettiamo su uno spettacolo! qui è tutto facile e bellissimo, e poi ci
manchi!». Come resistere. Arrivata di fresco, gli occhi scintillanti e ansiosa di lanciarmi nella città più bella d’America, assestavo i miei cento colpi di spazzola e partivo con loro, ogni sera, alla scoperta di Frisco by night, che poi si rivelava il tour dei bar gay downtown. Io, ultima arrivata, mi adeguavo. Ora, non dico che la vita sia fatta solo di incassare complimenti e raccattare attenzioni, ma se sei etero frequentare solo locali gay può nuocere gravemente alla tua autostima. Gli sguardi ti attraversano, sei l’unico pesciolino grigio in un acquario zeppo di colori
tropicali, la zia invitata all’ultimo la sera di Natale. Però sei così simpatica… Grazie. Qualche etero a cercarlo bene c’era, non dico di no, ma certo non girava dalle nostre parti. Comunque, quella strana ero io.
Dovevo ampliare i miei orizzonti. Mi lanciai alla ricerca di una buona scuola dove continuare col mio tiptap, le mie caviglie e la mia autostima scalpitavano. Per dei buoni corsi però ci voleva un mutuo, gli altri erano di livello parrocchiale nei ‘Centri d’arte di quartiere’, dove anche i più sfigati potevano imparare a suonare la chitarra, cantare, danzare e tutto il resto. Niente vie di mezzo. Exit il sogno di migliorare la danza decisi di imparare a suonare la chitarra, ché tanto col mio lavoro malpagato e clandestino non mi potevo permettere di più. Lo ammetto, questo di iniziare un corso di chitarra per me è un po’ come smettere di fumare, l’ho fatto decine di volte, mi viene benissimo, poi smetto. Non di fumare, naturalmente. Non andai più lontano di Jambalaya on the Bayou, trionfo di critica e di pubblico. Lo spettacolo alla fine lo allestimmo davvero, un ‘Maître Patelin’ rivisitato dove io ero una Guillemette un po’ stralunata e mi fingevo francese purosangue, finzione nella finzione. Il debutto a Berkley andò bene, pubblico francofilo e successo facile del resto, in America français vuol dire colto e raffinato, sa di profumi, eleganza e intellettuali accigliati che discutono al bistrot, una garanzia. Per un po’ ho potuto giocare anch’io a Colette, dire cose intelligenti rollando le erre e gesticolare alla parigina, dieci centimetri più alta in un colpo. Quando mi ricapita, pensavo, noi italiani siamo pur sempre della genìa dei
disgraziati di Ellis Island, da noi ci si aspetta che parliamo a voce alta, suoniamo chitarra e mandolino e cuciniamo buon cibo ipercalorico. Per la chitarra a modo mio ci stavo lavorando, ma detesto le urla almeno quanto cucinare, vedi se alla fine non ero francese sul serio. Di gente finii per conoscerne tanta, e più ne conoscevo più cresceva l’impressione che fossero una banda di adolescenti abbronzati, tutti a galleggiare in un eterno presente a tratti invidiabile, ma che non era il
mio. Arrivai alla conclusione che noi europei non siamo mai abbastanza giovani per questa parte del mondo, con la nostra ironia disincantata e tutto quel passato alle spalle nasciamo già troppo vecchi per questo oceano di leggerezza. E poi, tutto quel sole. Una giornata uggiosa ogni tanto ci vuole, rallenta i pensieri, aiuta a mitigare l’assedio dell’irriducibile ottimismo del nuovo mondo. Dopo qualche tempo avevo perfino nostalgia del cielo grigio e degli scontrosi parigini, che almeno quando arrivi a conoscerli hanno qualcosa da dire. Kerouac in quelle strade non c’era più, o se c’era si nascondeva
bene. Riuscii a intravedere il suo fantasma solo a Big Sur, onde magnifiche, tanto blu, un posto selvaggio e perfetto, ma non all’altezza del mio sogno. Non che sapessi quello che cercavo, ma di sicuro non era lì. Così un giorno decisi che era ora di andare a vedere cosa c’era altrove. Lasciai San Francisco senza rimpianti, con la mite, allegra malinconia
che è così bello indossare quando è l’unico vestito in cui ti senti bene, la tua tenuta da viaggio.
Ci sarei tornata ancora, in America, avrei camminato per la Quinta strada cercando la luce di Storaro, vagato per il Village canticchiando Dylan, comprato un hot dog da un baracchino a Tribeca. E ancora, mi sarei seduta al Museo di Storia Naturale come il giovane Holden, e avrei adorato il MoMA e le casette di Brooklyn Heights, insomma mi sarei innamorata di New York, con quell’amore facile e incantato di quando sei solo di passaggio. Questa volta avevo in tasca un biglietto di ritorno, e quando è così non ti vedi a cercare casa e lavoro o a sgomitare nella metro dell’ora di punta, non ti immagini a schiantarti di freddo polare d’inverno e di caldo l’estate, o a schivare gli affusolati, schifosi cockroachs marroncini che la notte scorrazzano negli appartamenti manco fosse la quinta strada nell’ora di punta. Puoi sognare di vivere a Central Park West, dove al mattino scambi due chiacchiere a colazione con Paul Auster, e incroci Philip Roth che compra bagel nella kosher bakery all’angolo, e mentre passeggi nel parco c’è J.D. Salinger che guarda il lago seduto su una panchina, e ti siedi con lui in silenzio e prima di andartene gli dici grazie. E continui il tuo giro, scalciando
grosse foglie rosse di tupeli e aceri e olmi, perché sei in uno degli autunni incantati di Woody Allen, e cammini leggera, e sai che non è un sogno perché proprio lui, il vecchio Salinger, ti ha guardato bonario, ti ha sorriso, e ti ha detto: ti capisco.”
Erminia Pascucci, “Anatomia di un sogno”