di Grazia Fresu
I PARTE
Voglio raccontarvi suggestioni, emozioni, frammenti di un viaggio nella pampa argentina, questa vasta pianura a Sud Est, identità e simbolo forte di questo paese.
C’è qualcosa nella pampa che smarrisce. Siamo in quattro su una camionetta in apparenza attrezzata per ogni evenienza, ci alterniamo alla guida. La strada dritta come una fettuccia spartisce lembi di terra uguale, praterie e steppe immense dove l’orizzonte permane privato di limite, di distanza. Guidiamo in silenzio, aspettiamo che un tramonto senza punti cardinali incendi le graminacee e le sterpaglie all’orlo del cielo, che qualche lepre enorme ci salti davanti all’improvviso cercando la tana, che poi scendano le stelle basse come se il firmamento stesse schiacciandosi su di noi e presto il buio diventa così assoluto che sembra impossibile che i fari della macchina lo buchino. E ti sembra impossibile quel silenzio inusuale tra noi che nessuno osa profanare. Sappiamo che questo è uno di quei viaggi senza meta da cui si torna temprati, esausti e indifesi. Ci sono leggende di gente persa in queste strade, un’ ultima birra in un agglomerato di quattro case e poi scomparsa nel nulla, inghiottita dal mistero della pampa. So che all’alba si vedrà qualche tetto, qualche bestia smarrita e qualche gaucho (buttero argentino) coi pantaloni ampi e le boleadoras (lacci con palle di cuoio per mettere a terra il bestiame)alla cintura, controllando mandrie e greggi. Ci saluterà con un cenno della mano e sarà per ore l’unico essere vivente che incontreremo. Poi la pampa, questo mare d’erba e sterpaglia, lo cancellerà soffocandolo come una madre troppo vasta e troppo esigente.
Come un gaucho vestirono a Hollywood Rodolfo Valentino negli anni venti, nel film “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, per poi fargli ballare un tango, senza sapere che il gaucho è figlio del campo, della pampa sterminata e il tango è figlio e re della città, della Buenos Aires crogiuolo di genti e patria del lunfardo, l’idioma bonarense con il quale la maggior parte dei testi del tango è scritta. Sono le due irrinunciabili anime argentine che raccontano la complessità di questo paese.
Della vastità sconsolata e magica della pampa e della sua figura centrale, il gaucho, che lo scrittore Leopoldo Lugones definirà come “genuino rappresentante del paese, emblema nazionalistico dell’argentinità”, raccontano due opere maestre della letteratura argentina, il poema “Martín Fierro” di José Hernandez, pubblicato nel 1872 e “Don Segundo Sombra”, romanzo di Ricardo Güiraldes, pubblicato nel 1926. Entrambe le opere sono considerate capolavori della letteratura nazionale e in esse si trova quello spirito di rivendicazione della propria identità che fin dall’Ottocento combatteva contre le tendenze politiche moderniste che volevano fare culturalmente dell’Argentina l’Europa del SudAmerica.
Il giorno avanza impietoso con folate di polvere che s’impastano a sterpi, palle inestricabili che a volte ci ostacolano la visione e il cammino, sbattendo sulla macchina, facendo mulinello sul vetro del cruscotto. Le mani sul cambio restano quasi sempre sulla quarta, in queste terre si scala marcia solo se incontri una mandria o un gregge che ti taglia la strada o per qualche ragione vuoi fermarti. L’immensità che ti circonda cambia così poco da farti credere di non esserti mai mosso, di percorrere sempre lo stesso frammento di terra che sarebbe monotona e noiosa in qualsiasi altra parte del mondo e qui non lo è. La pampa non può essere percorsa da soli. La sua uniformità spaziale, il suo senso dilatato di tempo ti scivola tra le mani e senza le coordinate spaziotempo a cui sei abituato una parte di te, intangibile fino a quel momento, si misura con le tue permanenze e la tua fuga. Attraversiamo enormi latifondi che non appartengono quasi più alla storia di noi Europei e che qui ancora si raccontano, raccontano il paesaggio, le stagioni, la solitudine e gli uomini. Tutto parla di un tempo protervo che si è fermato e quello che vedi non è solo tradizione, epica del campo, estetica della vita rurale, ma anche moderna sopraffazione, ingiusta miseria, iniqua distribuzione della ricchezza, sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Qui Benetton e altri industriali tessili hanno la loro riserva di pecore, portano via la lana e altrove la lavorano, altrove nasce lo stile italiano ambito nel mondo, la giacca colorata, l’originale pullover, il vestito che veste bene, qui di tutti quei dollari e euro resta molto poco, restano queste facce dure di pastori e butteri con dieci ore e più di lavoro addosso, asados (grigliate) tra uomini nei giorni di festa e per lungo tempo quasi mai nessuna donna a scaldare loro il cuore.
Ed ecco una poesia ispirata a questo viaggio:
Pampa
Non so se il cielo mi stia sulla testa
o se sia questo mare d’erba
questa terra gelata il luogo
dove il sole impallidisce gli arbusti
e le stelle somigliano a boccioli gialli
tra la sterpaglia e la polvere,
l’orizzonte è una strano miraggio
fatto di uccelli scuri a volte
e gruppi di pecore bianche
di armenti muschiati si disegnano
nell’aria rarefatta del giorno.
Non so se sei tu Don Segundo Sombra
seduto nel patio aspettando
le mie arance succose e devote
o tu Martín Fierro scappando
verso di me dalla morsa dei soldati
nella solitudine della pianura.
Tutto è pampa, anche il pensiero di te
diffuso solenne vincente
nel chiarore dell’alba,
tuo è il cavallo bruno, le boleadoras,
il profilo d’aquila che mi sfugge,
tue le note di una chacarera,
il caldo abbraccio di un poncho amaranto,
la fiamma slabbrata dei fuochi
dispersi nella notte.
Sei pampa dentro di me
una vastità che perdura
un silenzio che commuove
un tempo di battiti indifesi.
Grazia Fresu