La nostra amica donnaconlozaino Erminia ci invia un racconto davvero intenso che condividiamo volentieri. Lasciamo alle lettrici e ai lettori il gusto di scoprirlo e commentarlo…
Route 66
Lo sapevo. Certo che lo sapevo. Uno dice allora perché ti sorprendi e resti lì come imbambolato quando ci sono un mucchio di cose da fare. Chiamare tutti, per esempio, che vengano a salutarla la Gina, e poi i fiori e tutto il resto. Io non faccio proprio niente invece, che ci pensi la Clara, mia figlia, ché un genitore che se ne va è nelle cose, la compagna di una
vita è un altro paio di maniche. Me lo diceva la Gina, negli ultimi mesi, di stare tranquillo, poi tanto ci ritroveremo, diceva, ma che vai dicendo, rispondevo io, tra un anno saremo ancora qui a discutere del tuo minestrone che fa tanto bene e a me sciacqua solo le budella, ma mentre lo dicevo dovevo guardare da un’altra parte, ché dopo tanti anni insieme
lei se ne accorgeva sicuro che mica ci credevo. Facevamo finta tutti e due, in fondo per far funzionare un matrimonio certe volte è così che si fa, come quando le dicevo che per me lei era sempre bellissima, non ci credeva ma le scappava un sorriso, e poi si ravviava i capelli. Tra poco sarebbero stati sessant’anni. Sessant’anni insieme a crescere figli e campare la vita, roba da farti venire le vertigini, perché uno invecchia fuori, e prendi pastiglie colorate due volte al dì, e imbrogli alla visita sennò ti levano la patente, e le gambe non sono quelle d’una volta e devi pisciare ogni ora, ma dentro di te è diverso, sei sempre tu, sempre e ancora tu, specie se ci stai con la testa, e io con la mia testa ci sto eccome, fammi sentire un motore che gira e ti dico subito se è la biella che sta partendo.
Ho lavorato fino a che ho potuto, la mia piccola azienda senza di me faticava. Non per essere presuntuoso, è che io alla mia officina ci tenevo, l’avevo tirata su dal niente, quando ho cominciato avevo solo la passione pei motori e la fame del dopoguerra, io c’ho messo il lavoro, tanto lavoro, e mi è andata bene.
Basta, quello che proprio non voglio fare adesso è pensare al passato. È andato, finito per sempre, come la Gina. Lei non si dispiace sicuro se non mi metto qui a sfogliare album di fotografie, non serve a niente, voglio guardare avanti.
Provo a elencare tutti i posti in cui non sono mai stato. Impossibile, nomina un posto e io non ci sono stato. Restringo il cerchio a quelli che ho sempre desiderato vedere.
«Papà, c’è qui il Dante con la moglie.»
«Dammi un attimo, arrivo.»
«Cerca di reagire, dai» Clara è china su di me, parla in un bisbiglio, come a un bimbo in culla, «è da stamattina che stai lì a guardare nel vuoto, la mamma ha smesso di soffrire, tu devi andare avanti.» Fingo di non vedere la sua mano tesa ad aiutarmi, mi alzo dalla poltrona con un piccolo scatto che mi procura una fitta all’anca destra, sempre lei, trattengo la smorfia di dolore, sono ancora in gamba, e sto pensando a quella strada americana, come si chiama, la Route 66. Ecco, è lì che vorrei andare, farmela tutta su una Chevy Impala, che quelle hanno un motore che come sente l’asfalto canta, nera come la notte, la voglio.
Ho stretto tante mani da risvegliare la mia artrite, le mie guance ossute a cocciare con altre guance ossute, solo i bambini sono tondi in faccia, ma quelli si rincorrono per casa, non vengono a baciarti se non costretti dalle mamme, peccato, sono morbidi e hanno un buon odore di cucciolo, i bambini. Gli abbracci poi mi hanno sfiancato la schiena. È che con l’età ho perso un paio di centimetri, forse di più, ma sono sempre una spanna più alto degli altri, così mi tocca abbassarmi per ricevere la stretta come si deve, a novantuno anni, è come fare sport agonistico. Le lacrime non vengono. Forse se le aspettano, non mi importa, il mio non è un dolore liquido, è cristallo duro, è qui dentro già da un po’, si è
piazzato qui da quando è cominciata la malattia della Gina, riesco solo a pensare a dove portarlo, il mio cristallo, io e lui. E la Route 66.
Non mi vogliono lasciare da solo. A poco a poco se ne vanno quasi tutti, Clara fa gli onori di casa, bene, sono stanco. Vorrei restare così, sulla mia poltrona, annusare con calma quel piccolo scialle verde chiaro che la Gina metteva sempre negli ultimi mesi, riposare, magari adesso sì, piangere un po’, per tutto il silenzio che la gente si è lasciato dietro, un
silenzio fortissimo, se lei è da qualche parte qui intorno forse riesco a sentirla.
«Ti faccio una tazza di tè?» Apro gli occhi, non mi ero accorto di averli chiusi. «Sto bene così tesoro, non voglio niente». «Ti preparo qualcosa per cena? Magari più tardi ti viene fame, devi mangiare qualcosa.»
Come faccio a spiegarle. Sto. Bene. Così. D’altra parte c’è rimasta solo lei, la Clara, a preoccuparsi per me, e si sta facendo vecchia pure lei. Mario, il mio Mario, se l’è portato via la polio che cominciava appena la scuola, è diventato un angelo diceva la Gina, io già me lo vedevo a far cantare motori fianco a me nell’officina, gli avrei insegnato ad ascoltarli, i suoni delle macchine, a capirli, sicuro gli veniva la passione come a me. Angelo un cazzo, dico io, se ne è andato e basta, come la Gina adesso. Meglio che non ci penso, oggi sarebbe ancora più vecchio della Clara. Me lo porto sulla Route pure lui, cristallo su cristallo, insieme a sua madre, ce lo meritiamo, che fra tutti non siamo andati più in là di Bussolengo.
«Lo so, forse non è ancora il momento» è da un po’ di giorni che Clara ci gira intorno, non mi piace, «ma dovremmo pensare a cosa fare con la casa e tutto il resto, insomma a come organizzarci.»
«Organizzarci?»
«Beh sì, dico, adesso che non c’è più la mamma che ci fai in una casa
così grande, e da solo poi, è complicato da gestire.»
Gestire non mi piace. Vivere tutti i giorni, pensare a come fare va bene, gestire… «Non c’è niente da gestire, ho vissuto qui fino adesso, devo solo continuare così, un giorno dopo l’altro, cos’è, pensi che non ce la faccio?» Si siede di fronte a me, le mani nelle mani, abbandonate in grembo, vogliono sembrare inermi, mi graffiano l’anima invece, come artigli. Sei vecchio, da solo non ce la fai, sono tua figlia ma ho già la mia vita e i miei problemi da vivere, anzi da gestire, è questo che dicono. Resto zitto.
«Lo so, scusa, forse è troppo presto, sono stati giorni difficili, dai, ne riparliamo domani che dici?»
«Dico che mi piacerebbe fare un viaggio. Ecco che dico. Mi piacerebbe proprio fare un bel viaggio lungo, lontano da qui». Le parole escono e deflagrano stonate, la guardo dritta in faccia, sì, le suonano proprio stonate, mi immaginava lì a rimasticare il passato, pronto per le parole crociate e la bocciofila, un viaggio? Le mani le si intrecciano nervose, che cavolo sta dicendo, adesso ci manca che comincia a sragionare. La chiudo lì. «Scusami, adesso sono stanco.» Fingo di assopirmi, prego il mio NonDio che mi lasci finalmente da solo, la mia poltrona, lo scialle verdino, gli uccelli che festeggiano la primavera fuori dalla finestra sul cortile, la Route 66, nient’altro. Mi bacia sulla fronte, mormora: «A
domani papà, cerca di riposare.» Clara è una maestra del sussurro, quattro figli da cullare e un marito dispotico da blandire, com’era quel film? Sussurri e grida, ecco, non c’entra niente ma mi viene sempre in
testa quando penso a quella famiglia. Ho tirato fuori il mio vecchio atlante, voglio studiare bene il percorso, tremilasettecentocinquantuno chilometri, da Chicago a San Diego, coast to coast. Diciamo un centinaio di chilometri al giorno, voglio guardarmi bene intorno, e poi la schiena è quella che è, ci vuole un mesetto buono. Però mica è obbligatorio farla tutta, meglio partire dalla California e poi dove arrivo arrivo, non devo dare conto a nessuno. Fare un elenco di
quello che mi servirà. Il passaporto e va bene, quello almeno non te lo levano perché sei vecchio, la patente è ancora buona per un po’, scorta di medicine, non sono un incosciente, carta di credito, occhiali da sole, graduati.
Per il biglietto lo so che basta andare su internet, sono mica nato ieri, anzi, decisamente no. Per quello c’è tempo, prima devo star dietro a Clara che continua a chiedermi cosa fare della casa. E prenditela ’sta casa se ci tieni tanto! vorrei dirle, ma non lo dico, voglio essere ragionevole, ogni tanto la sento che bisbiglia col marito: «…cose strane…. rut sixstisix… non può … lo so, lo so, non è mica facile… sì, sì domani… ci parlo.» E poi oggi ha parlato. «Sono andata a vedere un posto» ha cominciato «bello sai? vedessi, c’è un bel giardino grande, è una vecchia villa giù verso il lago, una ventina di stanze in tutto, mica uno di quei casermoni.» È imbarazzata, parla di fretta, si è preparata il discorso, si vede, ma è così preoccupata a sondare la mia faccia che perde il filo, mi farebbe pena se non sapessi dove vuole andare a parare.
«Una bella villa?» Alzo lo sguardo dalle mie carte, la fisso, sorrido. «Vuoi vendere questa casa e comprare una villa?» No, non ho intenzione di fargliela facile. «Ma no, figurati! La casa è tua e ci fai quello che vuoi… certo, forse sarà bene venderla prima o poi, perché serviranno parecchi soldi, sai quello è un posto che costa carissimo, camere singole, cibo buono, assistenza medica h24.» Ci siamo, non ha il coraggio di dire la parola: Casa di Riposo? Ospizio? Viale del Tramonto? No, non ha il coraggio di dirla, manco di sussurrarla, vuole che io capisca, e io infatti capisco, altro se capisco. Torno alle mie carte, non trovo niente da dire che non sia triste e offensivo e cattivo, andare a chiudermi in un posto da
cui non uscirò con le mie gambe, e pieno di vecchi poi, grazie figlia mia. Devo pensare in fretta. «Ci sono persone interessanti, sai?» Ormai è partita, la mia Clara «Dicono che nascono un sacco di amori in quelle case.» Aggiunge con un tocco di malizia che non le conosco, sì, forse dopotutto mi fa un po’ pena. «All’ospizio, vuoi dire?» «Ma quale
ospizio! questi sono alberghi di lusso. Ospizio sembra una roba da Dickens! Che dici, andiamo a dare un’occhiata insieme domani? Così, tanto per vedere.» Tanto per vedere, certo. Non stacco gli occhi dalle mie carte. «Va bene, ma domani non posso, ho altri impegni». No, non gliela faccio troppo facile. «Impegni? Ah, sì, certo, come vuoi tu. Sì sì andiamo sabato, così viene anche Alfredo.» Ci mancava pure il genero di sostegno, novanta chili di inutilità rumorosa. Non mi fanno paura, no, neanche se portano tutta la famiglia fino alla più recente discendenza, nel senso del pronipote che gattona. Route 66.
Ho tempo per pensare a una strategia. Quarantotto ore per scegliere unaposizione. Elenco tutte le possibilità, che non sono molte: uno, mi rifiuto e mi impunto, con la condanna di Clara che mi sussurra tutti i giorni che da solo non ce la posso fare. Due: fingo di assecondarla, la accompagno a vistare ville nel verde e poi dico che non mi piacciono, potrei tirarla per le lunghe un bel po’. Tre: acconsento, mi trasferisco a Villa Vattelapesca, gioco a dama, faccio un corso di acquerello, vinco il campionato di burraco, sorrido e ingoio medicine con gioiosa avidità. Quando tutti mi vedranno sereno e rassegnato, scappo. Sì, questa mi piace, alla mia età non c’è tempo da perdere, mi vedo sorridere allospecchio, mi scappano due passi di balletto sul posto, stai buona anca che sto festeggiando.
«Sono quello nuovo, quello della 6, Carlo, Carlo Dal Co’.»
Tendo la mano, sorrido, ho messo tutti i denti, sono gioviale.
«Benvenuto Carlo! Io sono Adele, della 15. Lei gioca a burraco spero, qui non si riesce mai a fare due tavoli decenti, uno s’addormenta colle carte in mano, l’altra si scorda tutto… un disastro.»
«Il burraco è la mia passione! Ci giocavo sempre con mia moglie.»
«E allora siediti e diamoci del tu, ne avremo di pomeriggi da passare
insieme!»
Missione burraco compiuta. Per gli acquerelli e la dama mi sa che passo, a tutto c’è un limite. Sono il cocco delle infermiere. Certe sono gentili davvero, anche simpatiche quando non ti parlano come se fossi un bambino ritardato, io le riempio di complimenti da vecchio bonario, le donne adorano i complimenti, fa niente se arrivano da Matusalemme. Sono obbediente, mangio tutto e lodo la cuoca anche se so io dove le direi di mettersi il suo cazzo di minestrone, passeggio, gioco a carte, familiarizzo col nemico. Le domeniche Clara porta la lasagna, a volte un ciambellone.
«Lo vedi che qui stai bene? Te lo dicevo io, meglio di un albergo a cinque stelle.» Le sorrido mentre addento il dolce. Le prime settimane veniva tutta la famiglia, ora viene solo più lei, buon segno, sono tranquilli. Ho studiato un piano. La sera verso le dieci qui piovono gocce di tranquillanti per tutti, che non gli venga fatto di sognare a ’sti quattro vecchi, poco dopo chiudono tutte le porte, si dorme. Io no, ho passato le notti a studiare, le gocce le do al geranio sul davanzale, poveretto. La mia camera è al primo piano e dà sul lato destro della villa, sotto c’è un vialetto di ghiaia, lo sento tutto il giorno quel crick chiak crick sotto la mia finestra, più in là il giardino, il cancello che si apre con niente, la strada che porta al lago, la statale, l’aeroporto. La Route 66. È da un po’ che cerco il modo di calarmi dalla finestra, non è poi così alta, e alla fine ho trovato: la manichetta dell’estintore. È resistente e lunga abbastanza, mi tiene di sicuro, che spenga il mio di incendio. Signori, me ne vado. È quasi mezzanotte, le benzodiazepine lavorano operose per abbattere anche l’ultimo ospite, noi prigionieri ci chiamano così, le infermiere sono all’ultimo piano, lontane, immerse in qualche serie tv, chissà, magari si dimenticano per un po’ che in questa specie di galera ci stanno pure loro. La casetta di plexiglas cerca di resistere, ma ho un coltello da pesce che fa da perno una bellezza, sono un meccanico cazzo, mi faccio mica intimidire da una scatoletta di plastica, srotolo la fettuccia, è grigia e spessa, più rigida di quanto ricordavo, meglio così, è più resistente. Me la lego in vita, faccio un bel nodo quasi marinaio, beh sì, quasi perché ’sto cordone non si lascia manovrare facile. Quanti metri saranno? Un pezzo di corridoio, la mia camera la finestra, a occhio una quindicina di metri, forse meno, io vado. Quando lo srotolo, il biscione grigio emette dei piccoli slap sul pavimento di marmo, lo sollevo, lo tiro fino al davanzale, ci sono, mi ci siedo sopra, prima le gambe? No, mi giro pancia al muro e mi lascio scivolare, piano, il piede destro trova un appiglio, ecco così, comincio a scendere, piano, la Gina mi sta guardando, ride, sei il solito incosciente, forse sì cara, ma ti porto in America! Mi calo piano piano, i piedi a puntare il muro, mi sto graffiando le braccia, fa niente, sento il cuore battere e mi sudano le mani, scendo, un po’ alla volta, scendo e scendo, poi uno strattone, sono fermo. Tiro e tiro ma niente, la corda del cazzo è finita. Mi parte una bestemmia silenziosa, guardo giù, manca poco, a occhio un paio di metri, e adesso. Resto qui appeso come un salame? Devo riuscire a slegarmi, se mi lascio cadere ce la posso fare, piego le gambe e via, il nodo per fortuna non era proprio marinaio, ma con una mano sola scioglierlo è un bel casino, calmo, devi stare calmo, se ce la faccio recupero pure un po’ di corda, il salto così è ancora più breve. Mi ci vogliono almeno cinque minuti per uscire da quella imbragatura da pompiere, ci siamo, un bel respiro, mi lascio cadere. Atterro con un tonfo secco. La ghiaia mi accoglie con silenzio complice, nessuno si affaccia, mi riposo un istante e conto mentalmente i danni. La schiena, quello che mi fa più male è la schiena, e poi la testa, devo aver battuto la testa. Devo tirarmi su, prima seduto e poi su un fianco, è così che si fa, ce la posso fare, la testa cazzo, sento un liquido caldo che scende sulle spalle, un sasso più appuntito, sicuro, la testa mi gira, meglio aspettare un po’, sono stanco, se chiudo gli occhi un momento mi
passa, Gina non guardarmi così, ce la posso fare, devo solo recuperare le forze, la schiena cazzo. Devo essere svenuto, sento delle voci, mi sollevano le gambe, l’anca porco boia, è la Paola, l’infermiera grande e grossa: «Signor Carlo! Ma che… sta bene? Ci ha fatto prendere uno spavento! Ma che voleva fare? Il dottore sta arrivando, non si muova.» Le sorrido, non ho né voglia né forza di raccontare del mio viaggio con te Gina, stavolta è andata male, ma appena mi rimetto ci riproviamo, promesso.
«Mi dispiace Paola, mi dispiace di tutto questo trambusto, non so che cosa mi ero messo in testa, forse un brutto sogno, chi lo sa, scusate, scusate tutti.»
Mi risveglio in ospedale, lo capisco dall’odore, mi fa male la testa. C’è un sacco di gente, bisbigliano tutti stavolta, non solo la Clara, penseranno che sono impazzito. Tengo gli occhi chiusi e intanto cerco di captare qualche parola, mi chiuderanno mica in un posto con le sbarre? Tendo le orecchie, niente. Clara resta una professionista del sussurro, le parole sono spezzettate, secche e umide insieme, non capisco, biscotti sbriciolati nel latte, penso, che cosa stupida, sta piangendo? Lo so Gina, forse non era un gran piano, penserò a qualcos’altro, vedrai. Sono stanco. Parole, lacrime e sussurri si confondono in un rumore di fondo inutile e lontano, meglio così, voglio solo riposare. Qualcosa di tiepido e buono mi attira verso giù verso il centro del mondo, un bel posto, tranquillo. Sospiro, mi lascio andare, mi sa che dormirò un po’.
Erminia Pascucci