Valentina P., Roma, Viterbo
Valentina abita nel mio palazzo, due piani sotto il mio appartamento. Lei ed il marito sono la certezza del buon vicinato, quello di un tempo, quando ci si scambiava i saluti da un balcone all’altro e si condividevano pentoloni di brodo e consigli. Sono sempre pronti a sostenerti nei momenti bui, ma anche in quelli belli, per scambiare una chiacchiera ed un bicchiere di vino.
So che esce la la mattina presto, la riconosco da un allegro vocio per le scale, da una porta che sbatte, poi dal cigolio di un passeggino infilato nell’ascensore, una bimba che dice: -Mamma, sbrighiamoci che è tardi! Corre con due zainetti piccoli attaccati al passeggino e uno, più grande e capiente, dietro le spalle. Anita, la figlia minore, perde un giocattolo e Caterina, la grande, si ferma a raccoglierlo, per proseguire poi per il nido e per la scuola.
Valentina raggiunge poi la metro, si infila veloce in una vettura affollata e si dirige al centro di Roma. È esile come un giunco e a vederla sembra difficile immaginarla capace di sollevare pesi e caricarli su scale e ponteggi. Ha scelto un lavoro difficile, nell’immaginario i restauratori sono figure eteree che organizzano spedizioni in posti ameni, nella realtà lei respira polvere e fatica, tanta, ma allo stesso tempo è felice di stare in mezzo all’arte e alla bellezza.
Valentina è nata in un quartiere periferico di Roma Nord, quasi in campagna. Da bambina passava la maggior parte del tempo in giardino, libera di vivere all’aria aperta insieme a tanti animali, tra cui i cani che accompagnavano suo padre a caccia. Da piccola amava disegnare, generalmente paesaggi, poi è passata alla pittura ad olio, passione trasmessa dal babbo con cui condivideva pennelli e tavolozza. A volte rivede, imbarazzata, i suoi dipinti, incorniciati, a casa dei suoi parenti. Ha praticato molti sport, nessuno con particolare attitudine o veemenza, ricorda solo la gran fatica che provava: pallavolo, danza classica: mai scattato nessun feeling. Finito il liceo ha deciso di studiare fuori Roma, voleva scappare via, scoprire un’altra città, fare delle esperienze da sola. Già dal secondo anno di studi sapeva che voleva fare la restauratrice. Ha scelto Viterbo e a venti anni ha iniziato la facoltà di Beni Culturali:
È scattata la molla da piccola. Quando dicevo che volevo fare l’artista, affermavano che dipingere era solo un hobby; ho ipotizzato che avrei potuto abbinare la passione per l’arte con il lavoro, ma non sapevo come riuscire. L’ho scoperto in seconda liceo, durante una visita al centro di Roma. Ho visto delle ragazze al lavoro con indosso una divisa uguale per tutte: una salopette bianca. Mi sono avvicinata per chiedere cosa facessero, ci hanno spiegato che stavano restaurando un monumento. Io le ammiravo sul ponteggio, al lavoro su una scultura: è scattata in quel momento un’illuminazione e ho pensato che quello era il mestiere che desideravo per me.
In facoltà il corso specialistico per restauro non c’era, tutto era impostato sulla storia dell’arte, nulla di pratico, le materie più consistenti le ha avvicinate solo più tardi.
Mentre studiava, lavorava dipingendo tessuti. Finiti gli esami fondamentali, ha chiesto ai professori di poter fare un tirocinio:
Giravo per Roma a cercare cantieri, all’università si pensava che il tirocinio fosse prematuro per me, un lavoro troppo tecnico, pertanto mi pagai da sola l’assicurazione. Iniziai il mio primo restauro all’ ‘Anamorfosi’ di Trinità dei Monti, un dipinto murale aperto al pubblico solo in occasioni straordinarie. Inaspettatamente mi misero alla prova, mi accordarono fiducia e cercai di non deluderli, tanto che nel giro di un mese riuscii a svolgere le mansioni di tutti gli altri.
Era un lavoro faticoso, ma il datore di lavoro era eccezionale. Luigi De Cesaris è molto conosciuto tra gli addetti ai lavori, un vero gigante bizzarro e professionale allo stesso tempo che ha creato una scuola di pensiero nell’arte del restauro; in tantissimi agognavano di lavorare con lui. Purtroppo è morto prematuramente ma ha lasciato degli insegnamenti seguiti ancora oggi. Dopo un po’ che la studiava, Luigi ha preso Valentina sotto la sua ala protettiva e l’ha inserita nel gruppo di lavoro, dandole una formazione vera. Finito il tirocinio Valentina è tornata a casa, triste per la fine dell’avventura. Dopo due settimane, riceve una telefonata da un’assistente di Luigi per una proposta di lavoro:
Quel giorno ho fatto salti di gioia, cominciai da subito a San Luigi de’ Francesi, nella cappella di Plautilla Bricci, Era un grande cantiere, io lavoravo su tutti i materiali, dagli stucchi ai marmi, fu un’esperienza pazzesca per me. Quando il mio capo partì per l’Egitto per seguire sul posto altre opere, mi lasciò la responsabilità del cantiere con solo una persona ad affiancarmi. Avevo ventitre anni e mi ritrovai a prendere decisioni importanti.
Il metodo che distingueva De Cesaris era il formare le persone dall’inizio alla fine, dava autonomia su qualsiasi questione e, soprattutto, insegnava a non accontentarsi mai. La sua bravura si vedeva soprattutto nel restauro del pittorico, inseguiva la perfezione. I miei studi all’università intanto proseguivano a rilento dato che ero al lavoro da mattino a sera.
Un triste giorno Emiliano, quello che poi sarebbe diventato mio marito, mi chiamò dall’Egitto per avvertirmi che Luigi era morto d’infarto. Emiliano tornò a Roma e decidemmo, con il resto del gruppo, di portare avanti il metodo del nostro maestro. In seguito qualcuno si è trasferito, qualcuno ha cambiato lavoro. A volte rimpiango quel team che oggi non esiste più, era una sorta di famiglia, io ho continuato comunque a lavorare con loro in vari cantieri; siamo ancora molto uniti.
Emiliano ed un altro abile collega, con cui il maestro collaborava all’estero, hanno preso il suo posto, portando avanti la ditta che si chiama appunto De Cesaris in suo omaggio. Chi li conosce apprezza la loro scuola di restauro, rigida per alcuni aspetti, ma che garantisce un ottimo risultato. Valentina ha continuato a lavorare con Emiliano dividendosi i compiti: lui si occupa della parte burocratica e relazionale, lei è in cantiere tutti i giorni.
Recentemente hanno terminato un lavoro a villa Medici, ora sono sulle mura Aureliane, in procinto di partire per un restauro a San Claudio dei Borgognoni a piazza San Silvestro:
Nel cantiere ci deve essere una figura centrale, una guida sulla parte tecnica, in genere ricopro io tale ruolo; è importante che le mani si muovano insieme, come se fossero una.
Mi vesto di bianco come le ragazze che mi avevano ispirato in seconda liceo, proprio come la salopette che mi aveva ammaliato a prima vista; indosso scarpe robuste da lavoro e varie protezioni di sicurezza. Le prime volte sulle impalcature provo un po’ di disagio, poi il ponteggio diventa la mia casa.
Del mio lavoro apprezzo il fatto che ogni giorno è diverso dall’altro, non c’è una sede fissa, mi piace mettere radici: ponteggio-casa, anche se poi tutto sparisce nel giro di qualche mese, per poi ricominciare altrove. Adoro l’aspetto manuale e la parte artistica, anche se non sempre c’è nei lavori a noi commissionati. Quando mi avvicino ad un affresco, mi documento per passare poi all’approccio fisico, per capire se c’è bisogno di una pulitura, e poi, insieme a Emiliano e al resto del gruppo, decidiamo come procedere, sempre all’unisono.
Nonostante la passione per il suo mestiere, a volte lo maledice dopo aver fatto un lavoro fisico particolarmente pesante. Quando si sta otto ore in piedi, si lavora al freddo o al caldo torrido, pensa che è assurdo avere inseguito questa carriera per tanti anni, ma poi si convince che ama restituire la bellezza:
È un’emozione potente quella che si vive al momento di togliere il ponteggio che per mesi non ti permette di vedere nel suo insieme l’opera su cui stai lavorando. La prima volta a San Luigi de’ Francesi, ero l’ultima ad andare via, mi sono raccolta davanti alla cappella il cui restauro era appena terminato e sono scoppiata a piangere.
A volte dubito, penso che non sia un lavoro utile al mondo, tanta fatica fine a se stessa. Certo, penso che sia utile al turismo, al patrimonio artistico ma mi dico che il restauro non è indispensabile. Quando sono andata in Egitto a lavorare su un dipinto e vedevo intorno a me persone molto povere, mi chiedevo se non sarebbe stato più giusto dedicarmi a loro invece che a un affresco. Lavoravo al ‘Monastero rosso’, uno dei capolavori più belli del mondo ma entravo in crisi guardando la miseria intorno a me.
È difficile conciliare il lavoro di mamma con quello di restauratrice, torno la sera molto stanca e devo dedicarmi alle mie due bimbe, preparare la cena, giocare con loro, non c’è tempo di ricaricare le energie, ma mi è stato necessario imparare a distruibuirle. Se prima non guardavo neanche l’orologio e non mi risparmiavo minimamente, non posso fare più come prima ora che ho Caterina ed Anita. Ho appreso a rallentare. La stanchezza, per quanto tanta, non vince sulla soddisfazione che mi dà il lavoro e sulla forza che mi infonde la mia famiglia.
Valentina aggiunge che quando si reca al lavoro, succede sempre qualcosa di inaspettato; ogni giornata è davvero diversa dalle altre:
Molti sono gli episodi bizzarri capitati durante la mia professione, per motivi di privacy non indicherò né persone né luoghi ma solo i fatti. Un giorno mi trovavo in uno splendido luogo di Roma, un posto all’interno di una grande struttura storica dove entrano solamente gli addetti ai lavori, una grande stanza superaffollata di opere scultoree. Sembra una folla di persone in attesa, è molto affascinante stare in mezzo a tante statue meravigliose, dona un senso di quiete. Aspettavo due colleghe che avrebbero dovuto occuparsi della manutenzione delle opere, una aveva già lavorato con me, l’altra la conosco la mattina stessa. Mi accorgo che si muove con fatica, lei mi dice che soffre di un problema alla cervicale e la notte precedente si era sentita male. Dovevano mettersi in spalla degli zaini contenenti degli aspirapolvere professionali e muoversi con estrema cautela tra una struttura e l’altra per effettuare la spolveratura. Tali zaini sono pesanti e ingombranti, spiego loro il da fare e mi dirigo in un cantiere limitrofo. Dopo dieci minuti, avevo appena cominciato a lavorare, una delle ragazze mi telefona: -Corri, vieni subito, è successa una cosa gravissima! Mi precipito scendendo i cinque piani del ponteggio su cui mi trovavo, pensando che una delle due si fosse ferita gravemente e già immaginavo di vedere un’ambulanza e del sangue. Corro, vedo da lontano una delle ragazze che mi fa cenno di sbrigarmi, giro l’angolo e trovo l’altra ragazza con un’aria mortificata e una gamba di gesso in mano: aveva urtato maldestramente un’opera appena restaurata facendola saltare. La gamba apparteneva ad una statua di dimensioni enormi, era molto pesante. Io ho chiuso la porta della stanza a chiave, le ragazze sono rimaste di guardia fuori, mi sono armata di stucco e colori e nel giro di qualche minuto ho riattaccato l’arto e nascosto il danno. Con la tavolozza a volte si fanno dei veri miracoli e nessuno si è mai accorto dell’intervento di restauro segreto…
Io e Valentina siamo sedute al tavolo della sua cucina, lei ha aperto una bottiglia di buon vino e, mentre lo sorseggiamo, arriva Caterina, la figlia maggiore, che reclama la sua attenzione. Lei promette di raggiungerla ma, prima di lasciarmi mi regala il divertente aneddoto di un episodio da lei vissuto quando lavorava in Egitto:
Quando sono stata in Egitto con Emiliano, ero al quinto mese di gravidanza ma per svariati motivi abbiamo deciso di nascondere ai monaci con cui lavoravamo il mio stato e la nostra relazione. Ogni persona aveva un aiutante del posto, ragazzi che vengono dai villaggi ai limiti del deserto: alcuni hanno scoperto la mia pancia di cinque mesi, mi hanno detto premurosi che avevano capito che ero incinta e che si sarebbero adoperati per trovarmi un marito che mi avrebbe permesso di non lavorare: -Vieni con noi, ti sistemiamo con un signore che penserà a tutto, non puoi andare in giro senza un uomo che ti protegga!– Mi fecero tanto ridere ma provai, per la loro attenzione, tanta tenerezza. Chiaramente ho declinato la gentile offerta e solo anni dopo abbiamo confessato ad Abuna Maximus, un monaco copto davvero speciale, che avevamo avuto una bambina.