Sono passati diversi anni da quando, zaino in spalla e pollice teso per la richiesta di un passaggio, partivo dalla capitale per passare qualche giorno in uno dei posti di mare più straordinari del litorale laziale: le spiagge del Parco Nazionale del Circeo. Venticinque chilometri di dune che si colorano, in primavera, di giallo, rosa, fucsia, per le fioriture di leguminose, Silene e dita di strega. Confesso con vergogna -ma nessun pentimento- di aver ceduto almeno un paio di volte alla tentazione di estrarre dalla sabbia qualche piantina per piantarla sul terrazzo di casa mia, bravando il divieto di danneggiare la fragile vegetazione delle dune. Il mio preferito è il fico degli Ottentotti, come è anche chiamata l’unghia o dito di strega, questo ultimo mi sembra il nome più appropriato per la vicinanza con il promontorio del Circeo. Dall’estremità nord della striscia dunale, infatti, si staglia il profilo dello sperone roccioso con la sua silhouette inconfondibile che si sporge verso il mare e, inevitabilmente, lo penso come il luogo mitico, dimora della maga Circe, intriso di una storia millenaria.
Negli anni della gioventù libera e dell’autostop, ci si trovava in una zona di spiaggia libera e meno frequentata dove, la sera, si montavano le tende e i cerchi si formavano intorno a un fuoco, a una chitarra e alla voglia di cantare e stare insieme. Una mattina, all’alba, fummo tutti svegliati dai carabinieri che ci sequestrarono le tende costringendoci a presentarci, qualche settimana dopo, al commissariato di Latina con la ricevuta di pagamento di una multa piuttosto salata: erano i primi segni di un piano che prevedeva l’incremento di un turismo riservato ai VIP e che spinse chi voleva continuare a campeggiare liberamente verso altri luoghi più selvaggi mentre gli altri iniziarono a piantare la tenda al Nord Sud del Circeo o nel camping di Sabaudia.
Dopo il mio trasferimento all’estero, diversi anni dopo, ricorreva continuamente la domanda: -Sei italiana? Di dove?
Avrei voluto dire: delle dune, del Circeo, di quel pezzo di mare che mi fa vibrare e provare la classica nostalgia dell’emigrante. Non sapevo spiegare perché affermare le mie origini romane non mi procurava lo stesso effetto anche se le persone esclamavano entusiaste: -Ah, che meraviglia, vieni da Roma: piazza Navona, il Colosseo, Fontana di Trevi…Quando provavo a parlare del mare, non lontano dalla capitale, vedevo storcere la bocca: -Sembra che il mare da quelle parti non sia molto bello- affermavano in molti e io mi chiedevo come fare a descrivere quella sensazione di benessere che mi prende ogni volta che inforco la litoranea dalla via Pontina e poi la migliara da Borgo Grappa verso l’inizio della fascia costiera. Mi piace percorrerla dal lago di Fogliano fino a Mezzomonte, ai piedi del Circeo: ognuno di quei 25 chilometri mi riporta a ricordi di pezzi della mia vita densi e intensi.
Una quindicina di anni dopo la mia stagione da libera campeggaitrice, il richiamo delle dune si era fatto tanto forte da sceglierlo come luogo di attesa del mio primo figlio che ha poi rischiato di nascere sulla Pontina, una trafficatissima domenica di luglio. Ornella, la magica ostetrica che mi aveva visitato la settimana prima del termine, mi aveva assicurato: -Parti pure tranquilla questo fine settimana: sei una primipara quindi hai tutto il tempo di tornare. Casomai nascerà dopo il termine e comunque non c’è nessun segno imminente. Serena e un po’ incosciente, pensavo che in fondo i cento chilometri che mi separavano dalla città li avrei percorsi in un’ora e mezza al massimo, salvo imprevisti.
Non so a quante donne sia capitato di perdere le acque nuotando in mare una domenica pomeriggio di luglio, ma per me fu decisamente il segnale dell’imprevisto: quella era l’ora di punta ovvero il momento peggiore per mettersi in macchina verso Roma. Ci vollero infatti quasi quattro ore per tornare mentre continuavo a sentire un fiume in piena tra le gambe. Per fortuna le contrazioni iniziarono la mattina successiva e Dario nacque in circa tre ore, meno dell’ansiogeno tempo di percorrenza della sera prima. Fu un parto naturale al 100%, in piedi, senza punti né altri interventi medici. L’energia che avevo accumulato bagnandomi in quel mare e una sorta di forza di attrazione del leggendario monte Circeo devono aver giocato un ruolo importante per questa nascita così speciale. Due settimane dopo, ero di nuovo in spiaggia allattando il neonato, oggi un ventottenne che ha ereditato da me un certo nomadismo ma anche un’incredibile attrazione verso quel luogo. Deve esserne stato marcato dalla nascita e negli anni successivi, quando tornavamo ogni estate dall’estero in formazioni diverse: con il fratellino nato in Belgio, i nonni malati, gli amici e i gattini adottati. In quel tempo percorrevo la litoranea con ogni mezzo conciliando i ritmi degli anziani e dei bambini: bagni e docce, pranzi da preparare, pic nic in spiaggia, bombole di ossigeno e infermiere, spesa e cucina e, appena possibile, i miei adorati e indispensabili bagni al mare avendo sempre il Circeo come faro.
A volte immagino un possibile dizionario esistenziale di questo luogo, un abecedario dei luoghi e momenti vissuti, una geografia ‘dunale’ della memoria. Affiorano immagini come in un film: io in bicicletta mentre torno dal mare con Dario piccolino nel seggiolino passando attraverso il Parco e l’avvistamento di un daino, il raggio verde visto dopo un tramonto da cartolina, una passeggiata notturna nella foresta per sentire i versi dei gufi e osservare le stelle nel buio totale, i fuochi di ferragosto e la processione sul lago di Paola, i vicini indiani di una casa in affitto a bella Farnia, detta Bombay City a causa della comunità di immigrati e la scoperta del caporalato nell’agro pontino, la storia passata dei carbonai e dell’immigrazione veneta, il mercato di Latina e le T-shirt di cotone americano a 100 lire (poi diventeranno 99centesimi), l’ascesa al monte Circeo e la visita ai giardini di Ninfa, la gita alle isole pontine e l’appassionata lettura collettiva di Canale Mussolini di Antonio Pennacchi.
La leggenda narra che il promontorio del Circeo fosse l’isola della maga, bel personaggio femminile che mette in evidenza altri possibili modi di essere, speculari a quelli del tanto celebrato eroe Ulisse.
Chi Dice Ulisse dice viaggio. L’eroe omerico incarna i valori che hanno formato la cultura occidentale moderna: la curiosità ed il coraggio, il gusto dell’avventura e della sfida, la voglia di essere l’artefice del proprio destino e il desiderio di superare i propri limiti. Attraverso l’astuzia, l’intelligenza e l’intraprendenza, Ulisse rappresenta il personaggio mitologico che ha ispirato l’arte per millenni, da Dante Alighieri a James Joyce. Come è tipico dei racconti epici, gli altri personaggi dell’Odissea sono funzionali alle avventure del mitico re di Itaca. Circe non sfugge alla regola; dalla lettura del poema sappiamo di lei quasi solo ciò che viene narrato dallo sbarco di Ulisse nell’isola di Eea fino alla sua partenza, l’anno dopo. Eppure la maga, figlia di Elios e della ninfa Perseide, ha una storia che di per sé vale l’interesse delle lettrici e dei lettori e degli appassionati di mitologia.
Un paio di anni fa, in uno dei miei soggiorni estivi a Sacramento, a circa metà della fascia dunale, lessi con grande piacere Circe di Madeline Miller. L’autrice americana, dalla penna fluida e dallo stile appassionante, svela, nel romanzo, i momenti salienti della vita immortale di della maga. Priva della bellezza perfetta e delle abilità di seduzione richieste alle divinità femminili, Circe subisce fin da piccola lo scherno e la mancanza di amore dalla sua famiglia (i caratteri e le riflessioni degli Dei riflettono le mentalità umane tra cui la discriminazione sessuale). Cresce riservata e solitaria fino al suo primo atto di coraggio: osa parlare qualche minuto a Prometeo durante la sentenza di Zeus sulla terribile punizione. L’interesse per i mortali nasce così in Circe, avida di trovare un’indipendenza e una sua posizione nella rivalità tra i Titani e gli dei dell’Olimpo, nella serie di divinità maggiori e minori. Tradita da Glauco, ad esempio, trasformerà Scilla nel mitico mostro marino. Sarà in seguito al suo esilio nell’isola di Eea che Circe coltiverà i suoi poteri e la sua forza; dalla disperazione maturerà il coraggio e la perseveranza di chi trova nell’arte della pharmaka, la ragione della sua vita immortale lontana da affetti e contatti. Isolata da tutti ma coerente con se stessa, disgustata dalla frivolezza e dall’incostanza degli dei, Circe supera la solitudine attraverso lo studio e l’applicazione delle sue pozioni. Ricerca il contatto diretto con la materia naturale, con il mondo selvaggio e mitologico senza mai disdegnare di mettere ‘le mani in pasta’ progredendo costantemente nel suo percorso di maga e di donna matura.
La narrazione di Miller è anche ricca delle avventure di Circe. Come quando la maga avrà il permesso da suo padre Helios di lasciare temporaneamente l’isola per di aiutare la sorella, sposa di Minosse, a partorire il Minotauro. A Creta Circe intreccerà una relazione con il mortale Dedalo, di cui apprezzerà l’umanità, l’ingegnosità, l’inventiva e la resistenza. L’architetto le donerà un telaio speciale per occupare il suo tempo infinito e produrre i tessuti dai colori speciali ottenuti grazie alla sua arte.
Ci sarà poi il tempo degli sbarchi di navi di marinai stanchi e affamati che la maga accoglierà con ospitalità in un primo temo; con prudenza e spirito di vendetta dopo lo stupro subito da un capitano di una flotta. Comincerà così a esercitare la magia con la nota trasformazione degli sfortunati marinai in porci, fino all’incontro con l’astuto e capace Ulisse. Il tempo passato con l’eroe è un tempo magico in cui l’incontentabile viaggiatore marca una pausa nella sua affannosa e continua ricerca e subisce l’effetto benefico della magia di Circe.
Se nell’Odissea non possiamo nulla sapere del destino di Circe dalla partenza dell’eroe dall’isola, nel romanzo della Miller, la storia continua intrecciando le vicende della maga e di Ulisse stesso attraverso la storia di Telegone, il figlio avuto dall’eroe (senza che questi lo avesse mai saputo). Il romanzo prende spunto infatti dal ciclo di racconti mitologici Telegono (persi ma tramandati da Apollodoro e Igino, mitografo romano) sulla storia dei figli di Ulisse, di Penelope e di Circe.
Nella splendida parte sulla maternità della maga si svela tutta l’umanità e la forza di una donna che, se pur con i suoi mezzi divini a disposizione, si trova a esitare, a rischiare, a dover operare delle scelte anteponendo sempre il bene del figlio. Se nel racconto mitologico la maga rende immortali Telemaco e Penelope, nel romanzo della Miller Circe sembra più propensa a operare per sbarazzarsi della sua stessa divinità e diventare umana affrontando con coraggio la vita e la decisione di trasgredire ancora, partendo dall’isola e liberandosi dall’esilio forzato.
Se Ulisse rappresenta il viaggiatore per eccellenza, Circe, esiliata per sempre nell’isola, dovrebbe rappresentare lo spazio e il tempo sospeso e fisso all’infinito. Eppure la sua attitudine alla ricerca nell’arte della pharmaka la rendono davvero uno spirito libero; la sua immaginazione la pone oltre i limiti fisici dei confini insormontabili e oltre le imposizioni. Con coraggio, perseveranza, dignità e forza, Circe resiste ai tradimenti, alle ingiurie, al disprezzo costante.
Come non avvertire tutta la straordinaria forza della maga in queste magnifiche dune?
P.