Scappare dalla Somalia

Cosa spinge una giovane ragazza a fuggire dal suo paese rischiando la vita e vivendo esperienze tanto traumatiche da non poterle evocare ancora a distanza di anni senza soffrirne?

Non le chiedo di parlarmene, questo era il patto alla base del nostro incontro per raccontare della sua vita in Italia, dal suo sbarco in Sicilia, nel 2017. Rispetto il silenzio di Naima sulle esperienze vissute nel passato che intuisco drammatico e le chiedo piuttosto di ripercorrere, a grandi linee, le varie fasi dell’integrazione nel nostro paese:

Sono arrivata in Italia con un barcone, avevo sedici anni. Dopo un mese dal mio sbarco mi hanno trasferito in un centro di accoglienza ad Enna. Io parlavo solo arabo ma lì ho imparato a comunicare in inglese con le altri ospiti, giovani che venivano dal Ghana, dal Mali, dalla Nigeria e altri paesi. In quel centro dovevo sempre aspettare: di avere l’età giusta, di poter uscire, di andare a scuola, di lavorare. Io chiedevo quando avrei potuto frequentare la scuola, o anche partecipare alla vita nel centro. Mi rispondevano che domandavo sempre troppo, che non potevo lavorare e dovevo aspettare. Nel centro non ricevevo le attenzioni che speravo né mi sentivo trattata equamente: sapevo che qualcuna usciva e andava a lavorare. Ho poi finalmente potuto frequentare la scuola ad Aidone, vicino a Piazza Armerina, da maggio 2018 fino a gennaio 2019. Ho provato a far correggere la mia data di nascita per poter figurare come maggiorenne e cercare un lavoro. Avevo conosciuto qualcuno che era riuscito a far modificare i suoi dati anagrafici; io ho potuto solo far correggere il mio cognome che era stato scritto male, trascritto come lo pronunciavo, ma per la data di nascita non c’è stato niente da fare. Secondo la legge italiana quindi non ero libera di lavorare così sono scappata in pullman a Roma dove conoscevo un’amica che viveva in un centro di accoglienza. Mi ha aiutato a trovare dove dormire finché sono arrivata in un centro per minori a Torvaianica dove sono stata ospite per due mesi. Intanto il Tribunale dei minori mi aveva assegnato un tutore ed è così che ho conosciuto Ginevra. All’inizio mi aiutava per la scuola, mi faceva uscire un po’ dalla casa famiglia e poi, nell’ottobre del 2019 sono venuta a vivere con lei. Ho frequentato il CPIA3 dove ho preso la licenza di scuola media ma era già durante il periodo del Covid e non è stato facile.

Con il suo sorriso dolce Naima racconta di aver frequentato la scuola coranica in Somalia e di aver avuto difficoltà con l’italiano che sente sempre di non padroneggiare perfettamente. In realtà capisce e si fa comprendere molto bene e appare ben contenta di sapere che potrebbe continuare gli studi nello stesso Centro d’istruzione per adulti che ha frequentato:

Prima seguirò un scuola di pasticceria: mi sono già iscritta, a settembre comincio. Nel 2020 ho frequentato il primo modulo di un corso alla Chef Academy e un tirocinio perché la cucina mi piaceva. Ho poi trovato un lavoro a Napoli in un albergo così sono partita per due mesi. Quando sono tornata, ho lavorato in un ristorante vicino Piazza Navona e poi in una cioccolateria a San Lorenzo. Il mio sogno sarebbe quello di studiare per diventare infermiera ma gli studi sono lunghi e difficili per me e mi va bene anche diventare una pasticcera professionale. Ora è estate e partirò in campagna un po’ con Ginevra ma poi, a settembre, riprenderò a studiare pasticceria. Mi piacciono i dolci, e a te?

Mi offre fiera una torta al cioccolato preparata da lei e mi dispiace doverle confessarle che non mangio dolci né cioccolata. Le chiedo come trascorre il tempo libero oltre a preparare queste squisitezze. Racconta di aver seguito un corso di boxe e poi di yoga prima della pandemia; frequentava una palestra e le faceva bene stare con gli altri. Il discorso scivola sulle amicizie: a parte qualche giovane che le ha fatto conoscere Ginevra, non ha ancora amici italiani. Racconta inoltre di essere reduce da una delusione: si è sentita tradita da quella che considerava la sua amica del cuore. Come tutti i giovani della sua età, a Naima piace uscire con gli amici, per lo più altri giovani somali o comunque immigrati stranieri che vivono a Roma. Gli altri ragazzi che sono arrivati con lei in Italia, con cui si è creato un legame importante, sono partiti per altre città o paesi: Bologna, Napoli, Germania. Quando esce con gli amici, le piace girare per la città o incontrarsi a casa di qualcuno per cucinare e chiacchierare. Ascolta musica in inglese, in italiano, in arabo; mi fa vedere elettrizzata un video di Faysal Muniir, star della musica somala.

Naima ha due sorelle più piccole di 18 e 19 anni con le quali comunica spesso in video e per le quali non può sperare nel ricongiungimento familiare che si può chiedere solo tra figli e genitori, mariti e mogli. Un’ombra passa sui suoi occhi quando parla della famiglia accennando a suo fratello che non c’è più e di cui non si sente di parlare. Per Naima non è stato facile superare la paura, il dolore e l’ansia che ha provato per lungo tempo ma, piano piano, con l’aiuto di Ginevra e dello psicologo, dice di essere più tranquilla. Mi spiega che la sua vita è cambiata molto: nonostante la mancanza che avverte per la lontananza con dalla famiglia e dal suo paese, ha trovato la sicurezza di vivere dove non c’è la guerra, dove ci sono prospettive per migliorare le proprie condizioni di vita e sperare nel domani:

In futuro spero di avere una vita tranquilla, fare un lavoro che mi piace. Sono anche pronta a cambiare nazione ma per ora mi vedo in Italia per lavorare e cercare di far venire le mie sorelle. Nel mio paese c’è la guerra fra i clan, si vive costantemente nella paura. Per fortuna la posizione delle donne in Somalia sta cambiando: prima erano costrette a stare a casa e non potevano studiare né lavorare ma adesso ci sono donne che fanno le militari, le ministre, le giornaliste.

Ginevra e la sua casa piena di libri rappresentano un altro mondo da quello in cui ho vissuto; sono cresciuta però con mia nonna che mi raccontava le favole. Mi piacciono molto le storie, i racconti,anche se per me è difficile leggere questi volumi in italiano; ora ho trovato un libro che parla della storia del mio paese, dalla colonizzazione e della guerra d’indipendenza: sto scoprendo gli avvenimenti passati in Somalia che hanno anche portato alla guerra con l’Etiopia nel ‘77.

Alla fine della nostra chiacchierata e per diversi giorni dopo il nostro incontro, mi tornano alla mente gli accadimenti della storia di questo paese martoriato da guerre e conflitti da troppi anni. Dal fallimento della prima Assemblea nazionale dopo l’indipendenza (la Somalia era stata affidata all’Italia nel processo di unificazione del paese e di decolonizzazione dal dopoguerra fino al 1960) con l’assassinio del primo presidente Abdirashid Ali Shermarke nel ‘69 al colpo di stato del generale Siad Barre. La politica somala era lontana vista dall’Italia, ma arrivavano gli echi degli effetti degli schieramenti USA/URSS in quello che si definiva lo scacchiere del Corno d’Africa, evocando il gioco degli scacchi: cavallo, torre, re. Mitra, mine e mercenari, erano e sono invece le pedine che entrano in gioco da troppi decenni a spese di un popolo sempre più povero e impaurito. Dalla caduta del regime di Siad Barre, nel 1991, il paese è tormentato dalle guerre di fazioni dei clan, alimentata dai Warlords, i signori della guerra, con effetti devastanti sulla popolazione anche per le carestie dovute alla distruzione dei raccolti e del bestiame, economia di base e di sostentamento della popolazione. Tra le varie missioni di peacekeeping fallite, c’è stata anche la missione italiana IBIS che si ritirò il 20 marzo 1994, giorno in cui vennero uccisi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Come non ricordare l’omicidio della giornalista e del suo operatore in circostanze mai del tutto chiarite? Indagini, condanne, assoluzioni, chiusure e riaperture dell’inchiesta: un balzello di responsabilità e omissioni inquietanti durato quasi trent’anni. Certo che Ilaria Alpi aveva condotto e conduceva indagini scomode sugli ambigui rapporti tra il governo italiano ed il dittatore Barre, sulle violenze commesse dalle truppe italiane in Somalia e, in particolare nei giorni dell’omicidio, su un possibile traffico internazionale di armi e rifiuti tossici che dai paesi occidentali venivano dislocati in Somalia in cambio di armi e tangenti. La giornalista aveva appena realizzato un’importante intervista a Bosaso da cui avrebbe avuto conferma degli interessi della società di pesca italosomala Shifco ed i legami tra i servizi segreti italiani e la malavita locale. Un’inchiesta che le è costata la vita, la cui verità fatica ancora a trovare spazio nelle aule di un Tribunale per gli intrecci con la politica e gli interessi economici.

Traffico di armi, lotte tra clan, campi di addestramenti jihadisti a cui si aggiunse l’epidemia e le inondazioni del ‘97, hanno perpetrato in Somalia una situazione di precarietà e continui conflitti per tutti gli anni ‘90 portando all’aumento degli sfollati e rifugiati. Il governo di transizione si trovò successivamente a combattere con l’Unione delle Corti islamiche che dal 2000 tentarono di prendere il potere da Mogadiscio verso il nord (il governo si era trasferito a Baidoa). I fondamentalisti islamici, legati Al Qaeda e capeggiati dalla milizia al-Shaboab, continuarono a operare con attentati e raid per riconquistare il potere ed instaurare uno stato islamico. Gli attacchi si intensificarono nel 2010-2011 fino ad un accordo per un corridoio umanitario a luglio 2011 per trasportare aiuti alle popolazioni colpite da una gravissima siccità. Da allora sino ad oggi il susseguirsi di attentati e di tentativi di mantenere il nuovo governo, insediatosi nel 2012 con le prime elezioni presidenziali dal 1967, sono continue. È uno stillicidio di tentativi falliti di mantenere una stabilità politica che si traduca in una minima sicurezza: attacchi sulle coste keniane con 60 morti (giugno 2014), droni americani che uccidono il leader di al-Shaboab tre mesi dopo, la vendetta dei miliziani che attaccano civili con uccisioni di massa nel nord est del Kenia e la strage dei 148 studenti cristiani al Garissa University College con raid aerei kenioti contro le basi Al-Shabab in Somalia come ritorsioni. L’escalation continua con il sequestro di una petroliera ad opera dei pirati a marzo 2017 e con l’esplosione di due autobombe in una zona centrale di Mogadiscio con 512 morti e più di trecento feriti, il 14 ottobre. In febbraio, il presidente aveva dichiarato lo stato di guerra contro il gruppo terroristico. Gli attacchi e i raid continuano; in Italia se ne è parlato maggiormente quando un convoglio italiano è stato colpito a Mogadiscio, nel 2019. Nel 2020 Trump annuncia il ritiro delle truppe statunitensi come in Afganistan ed Iraq; la situazione politica si fa di nuovo incerta fino alle nuove elezioni del 2021.

La pandemia di Covid-19 è stato un problema minore per la popolazione rispetto all’invasione delle locuste, le inondazione e le continue violenze. Centinaia di migliaia di persone sono costrette ogni anno a spostarsi e trovare rifugio in insediamenti o campi dove le condizioni di vita sono indecenti oltre a diventare facilmente vittime di soprusi, stupri e arruolamento forzato (i bambini soldato). Si parla di più di due milioni e mezzo di sfollati interni (inclusi i somali che sono dovuti rientrare dallo Yemen); il paese ha generato, nel 2021, quasi ottocentomila rifugiati, trovandosi all’8° posto nella triste classifica mondiale dei paesi da cui la popolazione scappa per rifugiarsi altrove, secondo i dati dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati).

Mi basta questo sintetico riepilogo degli avvenimenti storici in Somalia, una storia che pesa quotidianamente nel destino di tante persone, in particolare per le donne, per dirmi che non è difficile capire perché una ragazza sia pronta a fuggire lontano, ad ogni costo. Al suo posto anch’io avrei lasciato il paese per scappare da una politica che uccide, sperando, con un po’ di fortuna, di riuscire a mettermi in salvo e sognare un futuro.

P.

Author: Patrizia D'Antonio

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