Dove non mi hai portata (Einaudi, 2022) è un’indagine autobiografica condotta dall’autrice, Maria Grazia Calandrone, con rigore giornalistico ma anche partecipazione emotiva che trapela dal lavoro di analisi delle ragioni che avevano portato la sua madre biologica, Lucia, ad abbandonarla e poi suicidarsi. È una storia che risale alla stessa infanzia e giovinezza di Lucia, vissute nel Molise contadino e povero del dopoguerra, costretta dalla famiglia a sposarsi un uomo più grande di lei, violento e presumibilmente sterile.
L’autrice cerca di ricostruire la lunga serie di eventi che hanno condotto al dramma pianificato da Lucia e da Giuseppe, il padre biologico, l’uomo che fa innamorare la giovane sposa, vittima di una sequenza di violenze e umiliazioni da parte del marito e dai suoceri, avallate dalla sua stessa famiglia. Quando Lucia rimane incinta non può che fuggire lontano con Giuseppe, anche lui in fuga dalla moglie e dai cinque figli, macchiandosi del delitto di adulterio (per una donna più grave per legge di quello perpetrato da un uomo) e di abbandono del tetto coniugale. Lo sfondo della vicenda, ciò che porta i due al punto di arrivo tragico del loro destino, è l’Italia dei primi anni Sessanta, della lontananza geografica e socioeconomica nel binomio Nord/Sud, delle leggi sulla famiglia retrograde e patriarcali.
La ricerca condotta dall’autrice ha il connotato del saggio e dell’inchiesta; si nutre di documenti, archivi, indagini sul territorio, come se vivisezionando il vissuto di un uomo e una donna i cui destini si incrociano per caso e si intrecciano per amore dando alla luce una bambina, Maria Grazia, lei stessa, personaggio e narratrice/autrice/detective, possa infine svelare ciò che è rimasto inspiegabile.
La sequenza dei fatti che compongono le circostanze del suo ritrovamento infatti sono dettagli da ricostruire per trovare una ragione per accettare che la propria madre e padre abbiano compiuto il terribile gesto di abbandonare la propria figlia per poi togliersi la vita. Mentre mette insieme i dettagli e gli elementi raccolti, l’autrice, come in un puzzle, fa combaciare dati, spostamenti, prove e testimonianze interpretandoli in modo da dar conto della vitalità e della capacità di resistenza della madre, dell’amore di Lucia e Giuseppe, della loro dedizione e attaccamento alla neonata. È così ancora più atroce la constatazione della disperazione dei due che, in modo lucido e calcolato (la pianificazione minuziosa degli eventi lo prova) individuano l’abbandono mirato e il loro suicidio come unica via d’uscita nel tunnel in cui la giustizia ed il contesto socio economico li hanno condotti.
Dopo la fuga dal Molise a Milano (un altro mondo) tentano di costruire una nuova vita di lavoro e accudimento della neonata che viene data alla luce scontrandosi già con il problema del riconoscimento. Una vita clandestina quella di Lucia e Giuseppe che, con la perdita del lavoro di lui, diventa ancora più insostenibile soprattutto con una neonata. A nulla valgono i tentativi di cercare soluzioni, il trasloco in un’area ancora più periferica di Milano, il lavoro in nero di Lucia come domestica per provvedere al necessario: i debiti si accumulano, le porte si chiudono alle loro domande di aiuto. Mettono dunque in atto il loro piano e, nell’estate del 1965, con i pochi risparmi, arrivano in pullman a Roma e, prima di scivolare nelle acque del Tevere in circostanze misteriose, la coppia spedisce una lettere a “L’Unità” per spiegare, con poche parole da interpretare, il motivo del loro gesto. Lasciano poi la bambina su un prato di Villa Borghese, confidando nel fatto che qualcuno si prenderà cura di lei. Ed è proprio con la missiva al giornale che il filo dipanato dai genitori suicidi si snoda fino a quelli adottivi: Giacomo Calandrone era un noto dirigente del PCI che adotterà, insieme alla moglie Ione, la bambina.
C’è dunque la storia personale, raccontata attraverso la narrazione della vita e morte di Lucia, e c’è la ricostruzione di ambienti e situazioni di un Paese che negli anni Cinquanta e Sessanta avanzava con le sue enormi contraddizioni e differenze: dalla retrograda campagna molisana alla periferia milanese in pieno boom economico e i suoi emigranti meridionali, alla capitale, luogo della catarsi, teatro ideale dove concludere una tragedia, con il suo fiume, la sua bellezza e le sue possibilità.
È una narrazione che coinvolge come un romanzo per lo sviluppo e la ricostruzione dei personaggi. Colpisce pensare però che non si tratti di personaggi di finzione ma uomini e donne veri il cui destino è stato segnato da un contesto storico tanto vicino a noi da sembrare impossibile. Sembra ci sia un secolo di mezzo eppure ero già una bimbetta quando i genitori di Maria Grazia si sono suicidati perché in Italia non era possibile vivere una storia d’amore fuori dal matrimonio, né, per una donna decidere della propria vita, dei propri sentimenti.
P.