Le migrazioni femminili in Italia sono un fenomeno significativo che ha avuto un forte impatto sulla società italiana negli ultimi decenni. Numerose donne sono giunte in Italia da diverse parti del mondo, spinte da ragioni economiche, politiche, sociali e familiari.
In generale, le donne migranti in Italia provengono principalmente dai paesi dell’Africa sub-sahariana, dall’America Latina e dall’Europa dell’est, ma ci sono anche donne che arrivano dal Sud-est asiatico e dal Medio Oriente. Molte di loro vengono impiegate in lavori precari e sottopagati, come il lavoro domestico, l’assistenza agli anziani, la pulizia e l’agricoltura.
Le donne migranti si trovano spesso a dover affrontare discriminazioni e difficoltà legate alla loro condizione di straniere, ma anche a quella di donne. Molte sono vittime di sfruttamento, abusi e violenze, sia in ambito lavorativo che in quello familiare. Coloro che sono madri devono conciliare le loro responsabilità familiari con quelle lavorative, il che rende la loro situazione ancora più complessa.
Nonostante ciò, le donne migranti in Italia stanno gradualmente acquisendo un ruolo sempre più importante nella società, grazie anche alle loro organizzazioni e associazioni che promuovono i loro diritti e la loro integrazione. Tuttavia, c’è ancora molto da fare per garantire una vera uguaglianza di opportunità e una maggiore tutela dei loro diritti.
Il 28 febbraio presso l’Auditorio di via Rieti a Roma il Centro Studi e Ricerche IDOS e l’ Istituto di Studi Politici “S. Pio V” hanno presentato un ricco volume dal titolo: “Le migrazioni femminili in Italia. Percorsi di affermazione oltre le vulnerabilità”, frutto del lavoro collettivo di Maria Paola Nanni, Ginevra Demaio, e Benedetto Coccia.
La sala era gremita di giornalisti, politici, studiosi ma anche e soprattutto di tante donne, alcune delle prime migrazioni, altre migranti degli anni 90 e oltre. Le donne sono state protagoniste dell’immigrazione straniera in Italia sin dai suoi esordi, eppure la loro specifica condizione è stata a lungo assimilata a quella degli uomini o identificata con ruoli marginali, passivi e stereotipati. I relatori e le relatrici hanno parlato della storia dell’immigrazione femminile in Italia, con i relativi dati. Gli interventi sono stati facilitati dalla proiezione di slide esplicative. Lo studio parla di donne dinamiche, autonome nei loro percorsi e protagoniste delle loro vite, ma relegate su posizioni subalterne da modelli di organizzazione sociale ed economica gerarchizzati per genere e cittadinanza. La loro condizione occupazionale infatti, da decenni resta relegata in ambiti e ruoli occupazionali svantaggiati e predeterminati, che riducono le opportunità lavorative, impediscono la mobilità sociale e la visibilità nella vita collettiva.
Sebbene tra gli stranieri residenti in Italia a fine 2021 le donne siano il 50,9% (quasi 2,6 milioni), esse scendono al 42% tra gli occupati (949.000) per risalire al 52,5% tra i disoccupati (199.000). Inoltre, il loro tasso di occupazione (45,4%) è in assoluto il più basso, rispetto sia agli occupati complessivi (58,2%), sia alle donne italiane (49,9%), sia agli uomini stranieri (71,7%), dai quali sono distanziate di ben 26,3 punti percentuali (tra gli italiani il divario di genere è di 16,7 punti).
Molte lavoratrici sono contrattate nel lavoro nero.
Tra le lavoratrici regolari, quasi nove su dieci sono occupate nei servizi (87,1%) e la metà si ripartisce in tre professioni (collaboratrici domestiche, addette alla cura della persona e impiegate nelle pulizie di uffici ed esercizi commerciali).
Sebbene siano più istruite degli uomini, le immigrate hanno molte meno possibilità di trovare un lavoro adeguato ai propri titoli: è infatti sovraistruito ben il 42,5% delle occupate straniere, contro il 25,0% dei lavoratori italiani e il 32,8% degli stranieri in generale. Inoltre, esse sono più esposte al part-time involontario, che svolgono nel 30,6% dei casi, ossia in misura quasi tripla degli uomini stranieri (11,6%) e quasi doppia delle italiane (16,5%).
Percepiscono una retribuzione media mensile di appena 897 euro al mese (-29% rispetto alle donne italiane e -27% rispetto agli uomini stranieri), una condizione che colloca la metà delle immigrate nel 20% più povero della popolazione.
Il crescente inserimento occupazionale delle donne italiane ha avuto come contropartita la diffusa delega alle straniere del lavoro domestico e di cura: un compito che continua a ricadere primariamente sulle donne e che, per le immigrate, si traduce in un accesso al lavoro, che le confina in ruoli di accudimento e, al tempo stesso, penalizza la loro dimensione familiare e affettiva. Nel comparto domestico il 70% degli addetti è straniero e, tra questi, l’85% è una donna.
Durante la pandemia le straniere sono state più esposte ai contagi da Covid-19 sul posto di lavoro, anche per il più difficile accesso degli stranieri ai vaccini (soprattutto se privi di tessera sanitaria), per il ritardo nell’estensione della vaccinazione prioritaria ai lavoratori domestici conviventi e ai caregiver di disabili gravi. Le assistenti familiari inoltre sono rimaste escluse dalle misure di sostegno quali la cassa integrazione, il blocco dei licenziamenti, i bonus una tantum, o ne hanno usufruito in ritardo, grazie al bonus badanti.
I relatori hanno evidenziato come la condizione di madre, soprattutto se lasciata sola nei compiti di cura e genitorialità, acuisce l’esclusione dal lavoro, evidenziando una più forte collisione tra occupazione e impegno familiare: le madri straniere di 25-49 anni con figli in età prescolare hanno un tasso di occupazione (46,4%) decisamente più basso di quelle senza figli (77,9%).
I lavoratori stranieri sono massicciamente incanalati e mantenuti in posizioni lavorative subalterne, e le donne sono ulteriormente penalizzate, in quanto incanalate in attività essenziali (oltre al lavoro di cura, anche il lavoro in agricoltura, i servizi presso uffici, alberghi e ristoranti) ma poco riconosciute nel loro valore sociale ed economico, poco tutelate e caratterizzate da maggiore sfruttamento e lavoro nero.
Le donne immigrate – di prima e di nuova generazione – esprimono un protagonismo autonomo dal mondo maschile, si muovono come soggetti consapevoli nei flussi migratori, nel mercato del lavoro e nella società, impegnandosi con associazionismo, nuove forme di attivismo, produzioni artistiche e letterarie, ma restano bloccate tra la volontà di affermazione personale e l’ esposizione a condizioni di vulnerabilità, pagando condizionamenti culturali tanto in famiglia quanto nella società – di partenza e di arrivo – che le relegano a ruoli di subordine e di minorità.
Gli interventi si sono snocciolati su precisi dati statistici ma lasciando lo spazio al racconto di tante donne , chiamate “pioniere dell’immigrazione femminile in Italia” che, individualmente o facendo parte di associazioni e gruppi hanno lottato per integrarsi e fare parte a pieno titolo della società italiana.
Tra tutte, Maria Marta Farfan Badaloni, arrivata in Italia sul finire degli anni ’70 dall’Argentina, da sola, scossa dagli eventi che si verificavano nel suo Paese e che è riuscita a creare un team per lo studio dei temi migratori, ha continuato incessantemente a studiare la condizione giuridica degli stranieri dedicandosi con passione ad informare correttamente sui diritti/doveri, ad aiutare tante donne nella ricerca di una vita regolare e “decente”.
Il convegno si è concluso con l’intervento di Stefania Congia, dirigente della Direzione Generale dell’Immigrazione e delle politiche di integrazione del ministero del lavoro e delle politiche sociali. Il suo discorso ha suscitato tanta commozione: ha ricordato il disastro avvenuto da poco a Steccato di Cutro, sulle coste della Calabria e letto toccanti poesie. Le sue parole hanno ribadito che tutto ciò che è avvenuto in mare non dovrà ripetersi mai più.
R.
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