Una delle donne con lo zaino più assidue nel nostro blog nel raccontare esperienze di viaggio e letture, ci ha inviato una mail per metterci al corrente delle sue esperienze degli ultimi mesi. Ha raggruppato tutto in una circolare, come quelle che usava mandare in giro per il modo quando viveva a Cordoba, in Argentina. Le auguriamo un caloroso “Bentornata Marisa” e leggiamo la sua “circo”, come i suoi amici hanno ribattezzato i suoi circostanziati resoconti.
Vicino a casa, a Mestre, al Forte Mezzacapo, uno dei tanti del nostro territorio che sono stati recuperati e adibiti a spazi culturali, ho goduto di uno spettacolo-conferenza su Glenn Gould: La sedia nana, interessante anche perché l’interprete, Marco Ballestracci, si interrompeva di tanto in tanto per farci ascoltare brani musicali, principalmente Bach (e specialmente Le Variazioni Goldberg).
Ballestracci è un attore e bluesman che sa raccontare in modo efficace e divertente, usando sapientemente le sue grandi e belle mani. Non ci spiega il fenomeno Gould da musicologo – pare piuttosto che voglia sottolineare la propria parzialità e pretesa incompetenza o perlomeno scherzarci su (come quando afferma di odiare tutta la musica classica tranne Vivaldi, motivando questa eccezione con un pezzo de Le Quattro Stagioni che concludeva sempre l’odiatissimo pisolino alla scuola materna, e il suono del piano di Gould nelle Variazioni perché gli ricordava il carillon che lo accompagnava verso il sonno da bebé). Di Gould ricorda le peculiarità: il modo assolutamente personale di suonare il piano, seduto su una sedia con le gambe accorciate di 30 centimetri (e sulla quale le gambe, lui, accavallava!) ritrovandosi la tastiera quasi sotto il mento (la sbessola, usando una delle sue frequenti locuzioni venete), o il suo terrore del freddo per cui poteva arrivare in sala registrazione in giugno con cappotto, guanti, sciarpa e berretto, oltre a una congrua fornitura di pillole variopinte e un bottiglione della sola acqua che beveva.
Uno spettacolo gradevole in uno spazio da frequentare più spesso.
Per la giornata Europea della Cultura Ebraica, una visita guidata al Ghetto di Venezia, alla scuola Levantina, al midrash Luzzatto, al giardino segreto della Scola Spagnola.
Siccome ho abitato in Campo del Ghetto Novo per cinque anni, conosco bene la zona e la sua storia, ho visitato tutte le cinque sinagoghe ancora esistenti varie volte, da sola o con amici ospiti; ma del giardino segreto non avevo mai sentito parlare. Ovvio, però, dato che è molto recente: in uno spazio a fianco della Sinagoga Spagnola (o Ponentina) e cintato da un alto muro, non solo non è visibile dall’esterno, ma vi si entra dalla stretta calle del Forno, molto breve e dove si trova il forno in cui si cuoce il pane azzimo per le feste rituali.
Anche se la denominazione lo rende misterioso, non lo è per niente.
La nostra guida – sicuramente non una botanica – ce ne ha spiegato il senso: si è voluto, in quello spazio, ospitare, ove possibile, le piante che vengono citate nella Torah, o che sono comunque importanti nella tradizione ebraica. Date le dimensioni del giardino, e la sua poca esposizione al sole, è stato impossibile metterci alberi grandi, come il salice (il salice piangente, o Salix Babylonica), o il cedro del Libano (sostituito da un Deodara pendula), e nemmeno il cedro (agrume), molto importante nella simbologia ebraica.
Le tre feste ebraiche maggiormente legate alle piante sono: Pesach, Shavuot e Sukkoth.
Pesach dura otto giorni (sette in Israele) e ricorda la liberazione e l’esodo del popolo ebraico dall’Egitto verso laTerra Promessa. Segna il principio della primavera, e per sette giorni (otto per gli Ebrei della diaspora) si mangia pane azzimo.
Lo Shavuot, o “festa delle Settimane o della Mietitura”, si celebra tra maggio e giugno per uno o due giorni. E’ legata ai cereali, dall’orzo al frumento, che anticamente venivano successivamente raccolti durante circa sette settimane, e che culminavano con offerte di pane al Tempio. Si capisce come non venga molto celebrata dagli Ebrei della diaspora.
Sukkot è la Festa delle Capanne, e indica proprio la capanna che viene costruita per la celebrazione della festa in ricordo del periodo “nel deserto” durante il viaggio verso la Terra Promessa.
Durante il loro pellegrinaggio nel deserto gli Ebrei vissero in capanne (sukkà). La Torah ordina di utilizzare, per la celebrazione della festa, quattro specie di vegetali: un ramo di palma, un ramo di cedro, tre rami di mirto e due rami di salice. Il cedro viene impugnato separatamente dai rami che invece sono legati assieme con la canapa.
Domenica 17 ottobre, per le Giornate del FAI, sono stata a Cordovado e Valvasone, due tra i borghi più belli del Friuli, non lontano da Casarsa. Nel primo avevamo prenotato due visite, al Palazzo del Capitano, e a Palazzo Cecchini Mainardi. La giornata era bellissima, cielo limpidissimo, sole e quindi temperatura molto gradevole. Nei pressi della nostra prima visita, una chiesa a pianta ottagonale, Santa Maria delle Grazie, eccellente esempio di barocco veneto.
Ai lati del santuario furono costruite le case dei cinque cappellani officianti, un ricovero per nobili, un ricovero per poveri, stalle per cavalli e un’osteria, oggi Palazzo Cecchini e Municipio.
L’interno è fittamente decorato con stucchi, tele, sculture, e contiene anche un elegante organo, tutti opera di artisti di una certa importanza, belli i lunettoni rappresentanti la nascita e l’assunzione della Vergine di Baldassar d’Anna. Il soffitto è a cassettoni dorati, con figure di santi, sibille e profeti.
Davanti alla chiesa, oltre la strada e una roggia di acqua limpidissima, il cosiddetto Prato della Madonna, che è stato conservato come prato a sfalcio per preservare la flora e la fauna autoctone. Al bordo della roggia, quattro splendidi Taxodium Distichum o cipressi calvi, resti forse di un parco contenente altre essenze esotiche.
La visita di Palazzo Cecchini si è limitata a qualche cenno storico su Cordovado (dal latino curtis de vado, terre agricole presso il guado), con qualche dettaglio sul palazzo, che non abbiamo visitato.
Assai più interessante il Palazzo del Capitano, il vero e proprio borgo medievale, con accesso attraverso porte turrite a nord e a sud, un fossato solo parzialmente conservato, e quel che resta dell’edificio lungo a due piani che ospitava le truppe al servizio del vescovo, e il loro capitano o gastaldo. La parte che ne sussiste è ancora proprietà dei discendenti dello scienziato Gino Bozza; è tuttora abitato, e se ne visitano alcune stanze, tra cui un salone centrale affrescato.
Sullo stesso lato si trovano edifici costruiti in epoca un po’ più tarda, alcuni con portico.
Avendo un po’ di tempo, ci siamo spinte un a ventina di chilometri più a nord per vedere un altro borgo, Valvasone.
Il duomo di Valvasone è una costruzione (1440-1500) semplice e austera che segue lo schema tipico dell’ordine francescano, e, a parte il rifacimento neogotico della facciata, è rimasta sostanzialmente invariata fino ad oggi: un’ampia aula rettangolare, disposta verso oriente, a navata unica, con volta a capriate a vista. L’organo (1532-33) è opera di Vincenzo Colombi. I dipinti delle portelle furono commissionati al Pordenone ma, dopo la sua morte nel 1539, portati a termine da Pomponio Amalteo. Sono bellissimi e valgono la visita.
Ho sentito alla radio che qualche genio, al Salone del Libro di Torino, ha proposto – o ha definito personaggia una delle persone di un romanzo. Ma allora, quando parliamo di un maschio, dovremmo dire persono? Proporrei anche vittimo, sentinello, guardio, analisto, profeto, e così via.
Ho anche sentito definire una direttrice d’orchestra direttora. E allora perché non cucitora, spettatora, ascoltatora, levatora, attora, senatora, camminatora, e chi più ne ha, più ne metta?
E come la mettiamo con la bisettrice, la motrice, la cucitrice, la trebbiatrice, la lavatrice e tutte le macchine? “Tutte le macchine rovescerò”, dice il buon Figaro, ma non intende questo modo.
Mettiamoci l’anima in pace: o accettiamo che queste desinenze che ci vengono dal latino (-tor, -trix) fanno parte della nostra lingua, e non sono per niente lesive dei diritti delle donne, o cambiamo la lingua e ce ne facciamo una artificiale. Ci illudiamo così di aver raggiunto la parità? E, soprattutto, di avere sconfitto la violenza e gli abusi sulle donne? Poveri (e povere!!!) noi!
Mi meraviglia che ci sia ancora qualcuno di così politicamente scorretto da parlare di “sfruttamento dell’uomo sull’uomo”, tagliando fuori la metà del mondo. Bisogna dire: “Lo sfruttamento dell’uomo e della donna, sull’uomo e sulla donna. Sulla donna e sull’uomo, sui bambini e sulle bambine, su LGBQ e qualsiasi altra sigla ecc. (guai a dimenticare qualche categoria!)” Solo così avremo un po’ di chiarezza. Oppure, rendendo il femminile universale, “della donna sulla donna”! Riprendiamoci il linguaggio!
Ritrovo l’espressione “open up a can of worms”, che letteralmente significa “aprire una scatoletta di vermi”, ma ha due versioni italiane: una alta “aprire il vaso di Pandora” e una più popolare e anche sulla stessa linea naturalistica dell’inglese, e cioè “sollevare un vespaio”.
Ogni anno l’università di Ca’ Foscari organizza Incontri di civiltà, con autori occidentli e orientali che si incontrano, leggono brani dalle loro opere e si intrattengono in dialoghi interessanti.
Ho assistito a due incontri, e Jan Brokken, con il suo L’anima delle città (Iperborea), mi ha interessato in particolare perché ha letto una parte del capitolo su Bologna e Morandi, visto che di lì a qualche giorno sarei proprio andata in quella città. Mi sono quindi comprata il libro.
Il titolo, mentre leggevo, mi è sembrato fuorviante. Brokken parla, in dodici capitoli, di altrettante città (o quasi) e altrettanti personaggi (o quasi), ma a me sembrava che difficilmente di tali città quei personaggi potessero essere l’anima: certamente non Mahler di Amsterdam, o Morandi di Bologna.
E mi è venuto un dubbio; ho cercato i titoli originali. Anime baltiche corrisponde (Baltische zielen), ma anima non c’è in L’anima delle città, che è Stedevaart. Vaart significa viaggio, spinta, navigazione. Iperborea, visto il gran consenso del primo titolo, ha forse voluto giovarsene per promuovere il libro seguente.
Rasserenata, ho continuato il mio viaggio.
Brokken gira molto, soggiorna a lungo nei luoghi, si documenta sui personaggi che gli interessano, scova delle fotografie molto suggestive, incontra chi ha conosciuto i suoi personaggi, o li studia. Costruisce ciascun capitolo su dati biografici, lettere, cronache, testimonianze, fotografie e persino aneddoti che potrebbero essere un po’ leggendari, e sa dosare l’ironia, lo scherzo, il paradosso.
Quando leggo libri di questo genere, mi dico che sicuramente mi sarebbe piaciuto fare lo stesso mestiere. Ma in realtà Brokken prepara i suoi viaggi con lunghe ricerche d’archivio e letture sterminate, infatti l’apparato bibliografico dei suoi libri è notevole. Io non potrei essere così costante.
Brokken è abile nell’assemblare tutti gli elementi, ti fa entrare nello spirito dei luoghi, nella psicologia dei personaggi. Sceglie soprattutto musicisti, pittori, scrittori.
“Eric Satie viveva a Montmartre in un placard. Un armadio, la descrizione è sua”. Naturalmente non è letterale, ma si trattava comunque di una stanza molto piccola, condivisa col poeta Condamine Latour. Siamo nel capitolo intitolato Parade, un vero gioiellino che fa rivivere l’ambiente parigino in cui, grazie alla collaborazione tra Satie, Picasso, Cocteau, Massine, Brokken ci racconta la nascita e le (s)fortune dello scandaloso balletto che colpisce la Francia nel 1916, in piena Prima Guerra Mondiale come una cannonata nello stomaco. Ma per il lettore di oggi, che godimento, questa scrittura veloce, leggera, irriverente!
Il viale verso il vuoto parte da un quadro di un pittore olandese sconosciuto ai più, Meindert Hobbema (1638-1709), che l’autore vede per la prima volta in una mostra ad Amsterdam e che poi ritrova alla National Gallery di Londra. Un quadro che stranamente lo attira, che lo fa ritornare sui suoi passi durante la visita, e che si rivela poi essere ambientato a Middelharnis, una località di mare olandese dove lo scrittore andava con la famiglia da ragazzino. E’ la sua madeleine, gli suscita
ricordi dolci e meno dolci, lo spinge a ritornare in quei luoghi alla ricerca del suo tempo perduto. Ma “l’acqua che scorre non torna mai alla fonte, un fiore caduto non tornerà mai più sul ramo”(pag. 250, come Brokken stesso chiosa alla fine del capitolo giapponese).
In esergo, “L’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre. Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quando l’ha riconosciuta per il segno di un’altra cosa… Tutto il resto è muto e intercambiabile, alberi e pietre sono soltanto ciò che sono.” da Le Città invisibili di Calvino.
Alle città italiane, oltre alla Bologna di Morandi, Brokken dedica due racconti, alla Cagliari dell’Orto Botanico di cui la madre di Calvino fu direttrice e alla Bergamo dove Donizetti torna per morire. In tutti e tre i casi – come negli altri racconti – questi vaarts, viaggi, sono pretesti per parlare degli artisti, e le città ce le dovremo (ri)scoprire noi, se i suggerimenti di Brokken, tutt’altro che banali e sempre vivaci ci avranno stimolati a sufficienza.
La terza settimana di novembre, eccomi a Bologna, con Luciana e il mio amico spagnolo Antonio.
Appartamento in centro, comodissimo, siamo sempre andati a piedi. E Bologna è una città da passeggiarci, per godere delle varie tonalità di ocra degli intonaci e la terracotta dei mattoni a vista e delle splendide decorazioni dei palazzi. E poi, del giallo dei ginkgo in abito autunnale che popolano splendenti giardinetti e piazze.
Molta vita, molti giovani. Girelliamo ammirando le architetture. Antonio ci fa osservare la maestria dei portici che si susseguono sempre diversi adeguandosi ai diversi palazzi ma in perfetta armonia.
Ci estasiamo a San Petronio davanti alle varie opere e in particolarela stupenda cappella con gli affreschi dell’Adorazione dei Re Magi di Giovanni da Modena, con il Giudizio Finale a sinistra e il viaggio dei Magi in tutte le sue fasi, e il magnifico retabulo centrale.
Imperdibile la visita a Santa Maria della Vita col “Compianto su Cristo Morto ” di Niccolò dell’Arca. E’ un gruppo di figure in terracotta a grandezza naturale: le due figure femminili a destra in movimento fanno presagire Boccioni. E la donna a sinistra della Madonna quasi si artiglia le cosce per lo strazio. Per Antonio troppo teatrali, lui preferisce il dolore silenzioso e trattenuto del giovane Giovanni. Con tanta drammaticità non si bada alla figura distesa e composta che è la causa di tanta commozione.
Vicino all’appartamento abbiamo il Ghetto e la quadreria dell’opera Pia dei Poveri Bisognosi, che ospita opere del ‘6/’700, alcuni Guercino e tele non disprezzabili.
Percorriamo isolati di portici alla ricerca del Collegio di Spagna e, una volta trovato, ceniamo nel gradevolissimo ristorante omonimo.
Impegnativa la visita alla pinacoteca in via delle Belle Arti: enorme, dedicata a opere dalle origini fino al manierismo e barocco, per quanto l’esposizione sia splendida.
Alla biglietteria, un anziano dalla gentilezza del cammello di Kipling in “Just so Stories ” e una testa da pipistrello, poi una guardarobiera sufficientemente aggressiva, ma dopo tutto fila liscio.
Buon pranzo di mare al Metusel – i portici di Via delle Belle Arti pullulano di bar caffè e ristoranti frequentati soprattutto da studenti.
Andiamo, come ci eravamo ripromessi, all’oratorio di Santa Cecilia. Dev’essere la giornata dei Cerberi Custodi perché all’ingresso ci blocca un pretone in clergyman che ci apostrofa “Cosa si fa in un oratorio? Cos’è un oratorio?” Tento una risposta “A pregare?” Non è soddisfatto, voleva l’etimologia – non avevo voluto sfoggiare la mia cultura, per cui ho lasciato che ci fornisse il suo “Os, oris.” Ma non gli bastava: sentendo che parlavamo spagnolo con Antonio, ha tuonato, in uno spagnolo maccheronico con accento napoletano e tono beffardo, contro le ragazze spagnole dell’Erasmus che siedono di sera sotto i portici, sbronze, e talvolta “nel loro piscio”.
Il ciclo di affreschi (1505-6) di Santa Cecilia è bello e interessante, ma ce la sbrighiamo in fretta: Antonio è stanco e torna all’appartamento, mentre noi andiamo al complesso delle Sette Chiese di Santo Stefano. Non è lontano. Vi si accede da una stupenda piazza triangolare porticata, lastricata di ciottoli di fiume con strisce di lastre bianche che permettono una camminata più agevole. Dall’esterno si vedono solo due chiese, con qualche bell’albero intorno ma poi, da Santo Stefano si accede a una successione di chiese, cripte, chiostri romanici uno più bello dell’altro. Tutto assolutamente gratuito.
Penultimo giorno un po’ trascinato. Con Luciana ho visitato la torre dell’orologio le gallerie di palazzo Accursio. Poi abbiamo aspettato Antonio che doveva andare a Santo Stefano ma si era perso ed era uscito senza portafoglio e ha fatto un po’ di casino. Abbiamo mangiato in un posto dove fanno la pasta in vetrina (uova a go-go), poi ci siamo separati. Con Luciana ho girato mercati e mercatini e finalmente abbiamo casualmente incontrato Antonio al Conad sottocasa.
Ritornata al mercato della montagnola, cose orrende! Quando frequentavo Bologna negli anni ’80 ci si trovavano cose molto belle (come a Porta Portese e Via Sannio a Roma Non ci sono più i mercatini di una volta!). Ma oggi i mercati sono tutti omologati e quelli dell’usato, infrequentabili. Abbiamo girato un po’, e con Luci sono entrata in qualche vintage: pretenziosi e cari o schifosi.
Siamo ritornati al Matusel per cena, e non ci siamo pentiti.
Visto parecchi film, ma voglio solo citare Il capo perfetto di Fernando León de Aranoa, con Javier Bardem nel ruolo principale. Blanco è il proprietario di una fabbrica di bilance, e la sua ditta è finalista per un premio di eccellenza. Lo annuncia ai suoi dipendenti, con un discorso molto paternalistico, in cui li incita a dare il meglio di sé proprio in questa settimana cruciale in cui una commissione verrà a verificare la situazione. Non lesina sorrisi, ringraziamenti, ammiccamenti, ma non riesce a controllare la rabbia di un dipendente appena licenziato che non sta al gioco e si accampa fuori dello stabilimento, con striscioni, altoparlante e i due figli piccoli quando è il suo turno di occuparsene, visto che la moglie lo ha lasciato e gli tocca dormire in macchina.
La situazione si complica e Blanco non lesina colpi bassi per spianarsi la strada al tanto agognato riconoscimento.
A questo punto, dovete andare a vederlo, lungi da me sciuparvi con importune rivelazioni il godimento di questo apologo nero. Ma, fidatevi, ne vale la pena.
La Polonia, che diventa sempre più incivile, sta proponendo un registro delle donne incinte, per tenere sotto controllo gli aborti. L’aborto, anche spontaneo, verrebbe punito, e con gravi pene, perfino la prigione. La protesta delle donne si è fatta subito sentire, attraverso whatsapp, sms, in cui si dichiara “Vorrei informare quest’autorità che non sono incinta”, e anche foto di assorbenti usati durante il ciclo. Se la situazione non fosse tragica, sarebbe davvero comica, e in ogni caso è grottesca.
Hanno fatto la festa alla mia Fiesta! La notte del 30 novembre, alle 00.30, suona il telefono mentre sono a lettto: ho appena spento la luce. Guardo il display, non c’è nome, decido che a quell’ora non può che essere un seccatore, e non rispondo. Ma un po’ più tardi, eccolo squillare di nuovo: è un fisso di Torino, dove ho amici. Rispondo, e una voce registrata mi chiede: ”Dove si trova? Ha bisogno di aiuto?” Capisco che si tratta del geolocalizzatore della mia assicurazione auto, penso che qualche burlone abbia preso a sprangate la mia macchinetta parcheggiata nella strada vicina, appena girato l’angolo. Mi affaccio dal balcone e vedo i lampeggianti di alcuni mezzi della polizia. In ciabatte, il piumino sul pigiama, scendo, giro l’angolo e voilà, la mia povera Fiesta è stata spiacciccata contro il muro del nostro condominio; anche la macchina che era parcheggiata davanti a lei è stata sbalzata in avanti con danni notevoli, e un SUV nero se ne sta col muso contro il muretto della casa di fronte, con le gomme squarciate. Una tizia si aggira frignando “Mio papà mi uccide, mio papà mi uccide”. Deduco perspicacemente trattarsi dell’incauta che ha fatto una così spettacolare carambola e penso che il babbo avrebbe dovuto soffocarla nella culla, ma non esprimo ad alta voce Il mio pensiero.
Risalgo per vestirmi un po’ più adeguatamente, perché c’è un pullulare di mezzi della polizia con solerti poliziotti intenti a fare i rilievi, e la faccenda ha l’aria di tirare per le lunghe.
La fanciulla (35 anni) sicuramente andava molto di fretta, e ha anche cercato di squagliarsela, complice la notte e la strada deserta. Ma la botta contro la mia auto deve averla messa un po’ in agitazione, non è riuscita a eseguire la fuga, per questo ha sbattuto qua e là. Sono felice che non si sia fatta nulla, e ancor più felice che l’incontro col muretto abbia reso impossibile la sua fuga.
Marisa Polimeno




