Tra i libri consigliati nel laboratorio “Curarsi con i libri”, uno tra quelli indicati mi ha colpito particolarmente perché parla di afasia.
L’afasia di cui si tratta in questo romanzo distopico riguarda il mondo femminile.
L’autrice è una neurolinguista come la protagonista del libro e immagina un’America governata da fanatici religiosi, i cosiddetti “Puri”, un’America in cui le donne non hanno più diritto di parola e non possono pronunciarne più di cento al giorno. Se lo fanno vengono punite da una scossa elettrica prodotta da un braccialetto che portano al polso dotato di un contatore che scatta ogni volta che viene pronunciata una parola. Le donne non solo non possono parlare, ma neppure lavorare, avere un conto in banca e un passaporto. Il modello è quello di una società che torni ai “sani” valori del passato.
Poco alla volta sono stata coinvolta in questa atmosfera in cui la mancanza della parola in quanto tale si univa a una mancanza di “voce” e quindi di libertà di espressione, che è il vero obiettivo che quel governo si poneva.
La protagonista Jean viene liberata temporaneamente dal braccialetto, ma solo perché è una studiosa dell’afasia di Wernicke e il governo ne ha bisogno per curare il fratello del presidente vittima di un ictus. Ma i veri obiettivi di queste ricerche sono terrificanti: non si tratta solo di scoprire un antidoto capace di curare l’afasia, ma anche di trovare un antidoto che consenta di provocare l’afasia in soggetti sani. Questa riflessione mi ha inquietato pensando a quanto potrebbe succedere, pur non in questi termini, in situazioni estreme legate a contesti politici autoritari.
Ho trovato questo romanzo avvincente e pieno di suspense e nello stesso tempo mi hanno colpito momenti volutamente lenti e riflessivi.
Mi ha toccato ad esempio come a tratti sia evidenziata la presenza di una comunicazione chiara e importante che va oltre le parole, come a ricordare che esistono modi paralleli di comunicare che non riguardano solo il linguaggio verbale.
Questo mi ha suscitato fiducia e speranza, nonostante la frustrazione che a volte mi generava il contesto.
Un esempio è la comunicazione di Jean con il marito in alcuni momenti critici, momenti in cui lei non parla o comunque non può spiegare, e riflettendo pensa: “mi disgusta che sappia ciò che sa non perché mi ha spiato, ma perché ci conosciamo così bene”.
Ho trovato interessante anche la riflessione e il valore che viene dato alle singole parole: ad esempio l’uso della parola “succedere” che di tanto in tanto viene evidenziato in situazioni diverse e ripetuto in modo quasi ossessivo.
O anche la parola “Tutto” di cui dice: “Tutto è una parola curiosa: viene usata spesso, ma molto di rado è vera in senso letterale. ‘Farei di tutto per uscire con lei’. ‘Chiedimi tutto in cambio dei biglietti per un posto in prima fila in quel concerto’. ‘Tutto ciò che vuoi’. ‘Ho tutto ciò che mi serve’. Ma “tutto” non copre mai ogni sfumatura dell’esistenza”.
A proposito del peso delle parole come ferita ho trovato tanti spunti efficaci e che condivido, cerco sempre di stare attenta alle parole che dico, ne conosco, per storia, gli effetti, e quindi le ferite e la cura che ne seguono. Sempre riferendosi a Patrick, Jean dice: “Ma le parole che sto per pronunciare non saranno mai assorbite. Ogni sillaba, ogni morfema, ogni suono riecheggerà dentro questa casa per sempre. Ce le porteremo con noi. Patrick se le sentirà bruciare addosso, come invisibili dardi velenosi.”
Ritornando all’afasia, tema centrale del libro, me ne sono interessata già a partire dai 20 anni, quando ho cominciato a insegnare.
Avevo a che fare con una realtà di una periferia milanese, in cui i bambini utilizzavano un linguaggio molto povero e di conseguenza incontravano grandi difficoltà nell’eleborare ed esprimere pensieri articolati ed ancor più nello scriverli.
È in quel contesto che fin da subito ho ritenuto la lettura ad alta voce di storie, racconti e libri, una cura della lingua, ma anche dell’anima di quei bambini che vivevano in un contesto così povero di stimoli.
Questo ha fatto sì che io abbia sempre posto molta attenzione nel mio lavoro alla cura dell’apprendimento linguistico (e in questo condivido con Patrizia la passione per il legame tra Pensiero e Linguaggio di cui si è occupato Vygotskij), .. ma questo vissuto mi ha anche permesso di essere più consapevole del bene prezioso che abbiamo: la parola e la voce: la possibilità di comunicare.
Una buona qualità di competenza linguistica è fondamentale per una efficace connessione con sé e con il mondo esterno.
Da qui lo studio dell’afasia (al Policlinico di Milano sul recupero degli afasici).
Ho vivo questo ricordo non solo per la parte teorica, ma anche per i tirocini pratici in cui venivo a contatto con la drammaticità di diverse situazioni: la perdita del linguaggio intenzionale, la incapacità di esprimere un pensiero con senso nonostante la fluenza del linguaggio o l’impossibilità di trasformare il pensiero magari lucido in parole o frasi complete e comprensibili.
Ricordo che pensavo che diventare afasici è quanto di più terribile ti possa succedere nella vita. E lo penso ancora.
Mi è servito molto leggere questo libro, L’ho letto due volte di seguito e mi ha dato l’occasione di ripercorrere con emozione alcuni passaggi importanti della mia professione e della mia vita in generale.
VOX – CHRISTINA DALCHER
Cento parole al giorno. Questo è il limite che ogni donna deve rispettare se non vuole essere punita da una scossa elettrica emanata dal braccialetto che porta al polso, un aggeggio munito di un contatore che scatta a ogni parola pronunciata. Nell’America immaginata dalla scrittrice e linguista Christina Dalcher nel suo libro d’esordio, Vox , governano i Puri, personaggi che uniscono il maschilismo al fanatismo religioso e infarciscono la loro retorica di richiami ai “sani” valori del passato, che mirano a ripristinare dopo anni di perdizione morale e spirituale.
Le donne, oltre a non poter sfiorare le cento parole al giorno, non possono nemmeno lavorare. Non solo: adulteri, omosessuali, cospiratori vengono spediti lontani dalle città, ai lavori forzati.
La protagonista del romanzo, Jean McClellan, come l’autrice è una linguista e, proprio grazie alla sua professione, che la vede impegnata a cercare una cura per l’afasia di Wernicke, patologia che comporta problemi sia nella comprensione del linguaggio sia nella sua produzione, riesce a vivere con una certa libertà. E a escogitare un piano per salvarsi.
Andreina Saba