La Tedesca

Anna Picardi condivide con noi un racconto presentato per il concorso
” Storie di donne lucane.Le nonne e le mamme raccontano, le figlie scrivono” indetto dalla Commissione Pari Opportunità e da quella dei Lucani nel Mondo.

Accettura (Mt)

Perché la chiamassero la tedesca non l‘ho mai capito e nessuno me l’ha mai saputo spiegare. Non certo per la sua statura che superava appena il metro e mezzo, come d’altronde quella di tutte le donne della famiglia. Forse per i suoi capelli biondo rossicci, il viso tempestato di lentiggini e gli occhi cangianti fra il grigio e il verde acquamarina. Una grande lavoratrice, buona per la casa e la campagna e per qualsiasi cosa che  si metteva a fare, diceva la mamma, dopo che lei se n’era andata ,con voce piena di rabbia e di dolore, per rimproverare la figlia più piccola, zia Michelina, dedita solo al ricamo e  ai lavori domestici.Una grande simpaticona, dicevano tutti nel ricordarla in paese.

Che peccato, Sisina! Sentii dire ancora a lungo dopo la sua partenza, da  giovani e vecchi, da uomini e donne, da gente di varia estrazione sociale, e mi meravigliavo di trovare tutti unanimi nel giudizio. Avevo poco più di sei anni e avevo sentito parlare così solo di persone  morte e perse per sempre.

Ma la terra per la quale era partita veniva considerata  qualcosa di simile all’aldilà, per il fatto che pochi di quelli che vi erano andati, erano poi anche ritornati.L’America dei ‘ciuti’ era la denominazione usata in paese nel contrapporla all’America buona, dove si facevano i soldi e dove chi vi rimaneva lo faceva per scelta e non perché non potesse pagarsi più il biglietto di ritorno. Un’America strana, insomma, America solo per chi  ci viveva, poiché la carne era meno cara del pane e la terra molto molto generosa.

‘Tierra de mierda’  incominciò  a definirla  nelle sue lettere zia Sisina, già dopo qualche mese che vi aveva messo piede.

Quartogenita di sei figli di cui mio padre era il primo, era cresciuta fra il paese  e la campagna a tre chilometri da esso.

La casa in paese sembrava un’osteria, aperta a tutte le ore per far  mangiare qualcuno degli uomini della famiglia  o qualche salariato di ritorno da un viaggio con il traino o con i muli (nonno Rocco aveva infatti una piccola impresa di trasporti). Molto spesso si fermavano a pranzo o a cena persone conosciute  nei viaggi, che passavano a salutare.E sovente si banchettava con le due famiglie forestiere, quella del sorvegliante ANAS e quella del daziere. Erano capitati ad Accettura per motivi di lavoro e i nonni avevano aperto loro porte e portoni. I numerosi figli avevano offerto l’occasione di rinforzare i legami d‘amicizia con  vicendevoli comparizi  di battesimo o di  cresima o innalzate alla Madonna. Il grande senso di ospitalità di cui il nonno andava fiero, era stato inculcato a tutta la famiglia ed è qualcosa che mi pare di aver respirato sin dal primo momento di vita.

Le terre con la vecchia, grande cascina, non definibile però ancora masseria, ormai abbandonata e usata come pagliaio, deposito e pollaio, erano state acquistate dal padre di nonno Rocco, nonno  Giuliano, figlio naturale di un grande proprietario terriero di origini nobili, e grande dongiovanni, e di una governante forestiera(della provincia di Avellino o di Potenza?) che ha dato alla famiglia il cognome che io ancora porto e di cui sono fiera.

Si estendevano dall’ultima curva dalla quale si può vedere il paese, prima che la strada prenda la discesa per San Mauro, con un bosco di non so quanti ettari e arrivavano al pendio opposto della montagna e perdersi nelle fattezze che scendono a valle nel letto del torrente Misegna .

Nonno Rocco, erede di gran parte di quelle terre, aveva fatto costruire sotto il tratturo vicino al pilaccio una casetta, ‘a pagghiaredda’, a misura della moglie che a quelle terre del suocero del quale si riteneva  la nuora preferita, aveva dato l’anima, spartendosi fra la casa osteria in paese ed esse .

Contrade Pitrizza e Valle Ficosi chiamano per il catasto, l’aria ‘a’mbrenna’ è la denominazione paesana e familiare che da bambina mi faceva pensare a un luogo di villeggiatura. L’aria fine (o l’aia?) dove si va a fare merenda.

Sotto la vigna a metá pendio, attraversata da una vena d’acqua  buona, c’era, e c’è ancora, il pilaccio che cadeva nelle nostre terre, ma trovandosi su una strada interpoderale, poteva essere usato  dai confinanti sia come abbeveratoio che come lavatoio. Con la costruzione della peschiera privata sotto il pilaccio, una parte di quelle terre era diventata: un orto, orgoglio della nonna, con peperoni, pomodori, melanzane, fagioli di ogni specie e le più svariate verdure ed erbe,  con alberi da frutta, tanti quelli di fichi e cespugli con uva spina, ribes. Insomma il vero ben di dio.

Nel periodo delle conserve le donne del vicinato Rione Piazza andavano in campagna a dare una mano a girare la salsa, a infilare pacche di pomodori  nelle bottiglie o a insertare peperoni. E intanto si facevano le provviste anche per la propria famiglia. “Quann‘ u stiavucc’ vai e ven’ ‘a micizia si mantene”, diceva la nonna con il suo fare affabile e allegro, ereditato e portato quasi all’esasperazione da sua figlia Sisina. Anche nel periodo della mietitura  e  della trebbiatura,  l’aria ‘a’mbrenn’ si affollava di gente venuta a dare una mano. Sull’aia vicino alla  pagghiaredda e alla grande quercia, si ammassavano  le ramagghie di ceci  o  lenticchie che venivano poi pisate  dal ciuccio che con gli occhi bendati vi girava sopra trotterellando al ritmo di una canzone allegra allegra. Gliela cantava qualcuno che fermo al centro della pisatura lo teneva per la cavezza, mentre con l’altra mano faceva volteggiare e schioccare nell’aria una frusta. Noi bambini ci godevamo lo spettacolo e qualche volta  potevamo passare al centro a tenere la cavezza dell’asino. E intanto gli adulti spiavano i movimenti dell’aria, armati di forconi, pronti per ventilare. La posta al vento diventava una siesta pomeridiana sotto l’ombra della  grande quercia. Nelle coste che prendevano mezza montagna si sentiva solo il canto delle cicale. E se la sera il vento ancora non si era levato, quasi a sfidarlo si imbandivano tavolate al chiaro di luna. Il canto delle cicale veniva sostituito da quello delle sampogne. Zia Sisina, accompagnata dall’organetto di qualcuno dei suoi spasimanti, era insuperabile. Molto spesso il vento, che si era goduto la serenata appostato sul cucuzzolo di chissá quale delle alture circostanti, faceva la sua comparsa solo all’alba, quando il sonno diventa necessità e goduria. Così come si erano appisolati tutti vestiti, sotto la quercia, saltavano su e si imbavagliavano col fazzoletto di cotone a fiori, tenuto tutto il tempo legato al collo, per proteggersi  dalla polvere. della paglia che nella levata  all’aria coi forconi veniva soffiata via, mentre i semi ricadevano nell’aia. 

Durante il soggiorno all’aria ‘a mbrenna’ dormivo  nel letto di zia Sisina. Il profumo agrodolce, frizzante ed inebriante del sudore delle ascelle col morbido cespuglio di peli rossi e ricci, fu quanto mi rimase di lei. Per molto tempo lo cercai nelle donne dello stesso sangue e non. Invano!

Non lo ritrovai nella foto che la vedeva poco più che adolescente accovacciata ai piedi dei miei genitori,  rivestitisi  in fretta e furia da sposi per il fotografo ambulante che era approdato in paese tre giorni dopo la vera cerimonia nunziale. Lo vagheggiai  poi nelle foto che dopo la sua partenza erano diventate un cimelio. In una di queste, con una gonna a campana e una camicetta sbracciata e attillata che lasciava indovinare le belle forme del suo seno da diciannovenne posava sotto braccio al fratello di mia madre, zio Rocco, molto più giovane di lei, a gambe incrociate e con  una  sigaretta  fra le dita.  Nella sequenza  dello stesso giorno, appoggiata a un camioncino, rarità assoluta  a quei tempi dalle nostre parti, era passata disinvoltamente a posare sottobraccio a uno zio di mia madre, Egidio, più  grande di lei, che viveva ad Addis Abeba, dove morì qualche mese dopo esservi ritornato, durante  un’operazione al fegato. Ritrovai l’inebriante profumo nella foto davanti al portone Tambone : elegante  e con piglio deciso, una borsetta a tracolla, mi  poggiava  un braccio sulle spalle. Il grande fiocco sulla mia testa arrivava appena all’altezza della sua vita. Il piglio deciso, il sorriso fra il sornione e il birichino era decisamente sparito sulla fotomontaggio che la ritraeva fra i miei genitori e i miei zii che l’avevano accompagnata al porto di Napoli. Leggibile sul volto di tutti  tristezza  e  lacrime. Sullo sfondo la nave  Sestriere  sulla quale avrebbe trascorso quaranta giorni.

Aveva avuto tanti corteggiatori, ma con nessuno c’era stata sorte .

E poi il grande amore, quello per il quale valeva la pena trafugare da casa  farina, olio e vino o quant’altro  non veniva a mancare alla sua famiglia, ma era di gran giovamento a quella di lui. Un amore decisamente contrastato da mio padre, suo fratello maggiore e già sposato, al quale non piaceva né il ragazzo, a suo parere decisamente guardapiazza, né l’andazzo  sciupone  e senza regole della sua casa, dove si cucinava per ciascuno una pietanza diversa. La madre invece era alquanto  consenziente e complice della figlia. E quando il giovedì santo del 1953 mio padre  incontrò sua sorella con  la tavoletta in  testa che portava  a regalare  alla desiderata possibile futura suocera la colomba pasquale appena sfornata, le fece fare dietro front e a casa mamma e figlia se la videro brutta.. Ci ha ‘acculombrat‘, sculumbrasse’ che ad Accettura ancora ‘fraschiescian’, fu la frase misteriosa che sentii ripetere a lungo per commentare l’infausto episodio da tragedia greca, ma che non ho mai capito e che  nessuno mi ha mai saputo spiegare .

Poco passò e arrivò una lettera dall’Argentina. Caro zio Rocco, sono da sempre innamorato di Sisina. Ma quando ero al paese non ho mai avuto il coraggio di farmi avanti, perché eravamo poveri e non all’altezza della vostra famiglia. Ora che ho un lavoro sicuro e mi sono fatto una buona posizione, mi permetto di chiedervi la  mano di vostra figlia..

Potete chiedere informazioni a vostro fratello Antonio che ho avuto il piacere di conoscere qui a Buenos Aires.

Il nonno  girò e  rigirò fra le mani gentili, dalle dita lunghe e affusolate, da signore, insomma, quella lettera che, insieme all’assurda richiesta  gli  riportava  un segno di vita tangibile del fratello partito trent’anni prima chissà perché per il Sudamerica quando invece avrebbe potuto fare come le sorelle che avevano scelto New York. Era un po’ frastornato. In queste cose non si era mai immischiato, lui il patriarca buono, dedito alla politica, procuratore di varie feste e soprattutto di quella di San Rocco, sempre alle prese con bollette e carte. Il suo tavolino scrivania era un luogo sacro in casa. Aveva lasciato fare sempre alla moglie, donna molto pratica che mandava avanti casa e terre e che lo adorava come un dio. Il marito è mare mi diceva quando incominciai a diventare signorina per farmi capire l’importanza e la vastità di questo rapporto per una donna. Aveva un bel dire lei che aveva avuto la fortuna di sposare l’uomo che amava, al quale era disposta a perdonare  tutto Col sorriso celava( gelava-lapsus freudiano del marmista) il dolore e impartiva l’esempio per affrontare le sofferenze della vita ha fatto incidere mia sorella Maria sulla sua lapide. Nessuno meglio di lei, lasciata a sei anni dai nonni, quando i nostri genitori  erano partiti per la Germania, e di zia Michelina, ultimogenita che non aveva voluto sposare forestieri per non abbandonare  suo padre malato, aveva potuto notare la pazienza e la dedizione di quella donna  che passava le notti al capezzale del marito per accontentarlo in ogni suo desiderio. Lui non era certo il tipo da fare da paladino all’onore delle figlie femmine. A questo dovevano pensare i figli maschi e soprattutto mio padre che aveva naturalmente accettato il ruolo per portarlo all’esasperazione.

Zia Sisina strappò di mano la lettera al padre. E dopo averla letta,  passó a a rimirare la foto tessera  acclusa che mostrava un giovane spavaldo dagli occhi vispi e dai capelli ricci e lucidi.  Stentó a riconoscere il ragazzo della strettola vicina, suo coetaneo, il cui padre, emigrato  da solo in Argentina, per molto tempo non aveva dato segni di vita. La moglie con un  figlio e una figlia  piccoli non se la passava certo bene al paese.Il ragazzo andava a bottega da un falegname, ma spesso seguiva come un cagnolino mio padre in uno dei suoi viaggi col traino. Quante volte avevano giocato a nascondino Fonsino e lei, insieme ad altri ragazzi del vicinato. Come aveva goduto l’innamoramento di quel ragazzo dolce, per il quale aveva provato tenerezza e forse i primi ingenui sentimenti d’amore, mai coltivati seriamente a causa del dislivello sociale. E poi c’era la madre di lui, che ogni tanto lavorava a giornata per la nonna, che zia Sisina considerava un’intrigante di prim’ordine, linguacciuta e ficcanaso. Una volta l’aveva addirittura cacciata di casa, quando si era permessa di scoperchiare la pentola della verdura sul fuoco per assaggiarla con un ferro della calza che stava facendo. 

Spostandolo sguardo dalla lettera alla foto e viceversa, la testa incominció a girarle.  Andare via, partire per l’America, uguale per quale America. Ti faccio vedere io!  Pensò in direzione di mio padre.

La notizia della proposta  di matrimonio e la risposta positiva si diffusero presto in paese. Mio padre, colto di sorpresa, non sapeva cosa dire. A Fonsino lui aveva sempre voluto bene come ad un fratello, ma che  Sisina  se ne andasse così lontano….

Iniziarono così  i preparativi per il matrimonio da fare per procura.

   Si lavò il corredo  alla peschiera dell‘aria a ‘mbrenna’ ,  con la partecipazione delle donne della famiglia e delle amiche. L’atmosfera allegra accompagnata da battute caustiche  era amareggiata dal pensiero della partenza. Il matrimonio si celebrò in autunno con tutti i crismi. Mancava solo lo sposo, rappresentato orgogliosamente da mio padre. Nonno Rocco  fece fare un festino favoloso. Figlia mia, diceva,  ci rivedremo all’America di Belluccio.

. Sei mesi dopo, di nuovo in autunno, un festino ancora più bello si tenne in un rione  di  Buenos Aires, con la partecipazione di tutto il barrio  e gli accetturesi  accorsi da tutte le parti. Il lungo strascico del vestito bianco si sporcò  nel fango della strada non asfaltata che portava alla casa degli sposi.. -Ma che America è questa?,-pensò zia Sisina,  che era stata accolta come una regina. Delusione e nostalgia trasparivano da tutte le lettere che incominciarono ad arrivare regolarmente. L’unica cosa positiva era il bene che le volevano il marito  e il suocero. L’incompatibilità di carattere con la suocera era peggiorata. Insieme alle notizie arrivavano le foto che documentavano le tappe importanti: prima quelle del matrimonio favoloso, poi quella con il figlio José neonato, poi quella del ‘tajero’,la falegnameria  con macchinari nuovi che dimostrava che zio Fonso si era messo in proprio. Poi la notizia triste del parto, del figlio nato morto che si sarebbe dovuto chiamare Roque, e infine  quella della Prima Comunione di José.

. I miei genitori, mio fratello ed io vivevamo nel frattempo in Germania, dove ci arrivavano regolarmente le lettere di zia Sisina.

Il tenore di quelle lettere faceva aumentare i sensi di colpa che mio padre aveva avuto sin dalla partenza della sorella. E quando questa gli chiese di pagarle il viaggio in Italia, per vagliare la possibilità di un ritorno definitivo, in cambio della sua quota di proprietà, mio padre accettò immediatamente. Così, a dicembre del `69, dopo quattordici anni, ritornò al paese con  il marito e il figlio. Nonno Rocco non c’era più. Era morto in agosto lo stesso giorno in cui io, ignara di tutto, ma triste e desolata nel non vedere  arrivare in chiesa nessuno della mia famiglia, oltre ai miei genitori e mio fratello, mi sposavo  a Torino. Ci incontrammo per Natale tutti ad Accettura e la foto di gruppo, con  le donne vestite di nero, esprime l’umore di tutti e soprattutto la  grande delusione di zia Sisina. Non era solo il dispiacere di non aver potuto più rivedere il padre, ma un lutto per un mondo che non c’era più. L’aria a ‘mbrenna’ e le contrade attigue si erano spopolate.Chi era partito per l’Inghilterra, chi per la Francia, chi per la Svizzera, chi per la Germania, chi per il Nord Italia o per una qualsiasi grande città. Accantonò ben presto l’idea di un ritorno  definitivo, zia Sisina che al mattino beveva non caffè, ma  mate  che offriva a tutti dalla sua ‘bombija’.Nessuno riusciva a trovare gusto in quella ciambotta, né tanto meno nel rito di berla  facendola  passare come un fiasco di vino col cannetto..Prima di ripartire registrò tutte  le voci  al ‘gravador’, non solo di quelli di famiglia, ma anche di parenti di amici in Argentina.

 Poco  dopo il suo ritorno  cominciò a concludere le lettere con la domanda : -Quando venite a trovarmi?- Così ci andò prima sua sorella maggiore col marito e il figlio che raccontarono  meraviglie della vita e della gente di là. Mio padre si teneva il desiderio ben nascosto fino a quando mi disse che come regalo di laurea mi avrebbe pagato il viaggio, se l’avessi accompagnato. Ma  la  mia tesi andava per le lunghe, poiché lavoravo, in Germania e studiavo, a Torino.

 Nell’81, dopo un viaggio di ritorno da Accettura, mio padre ebbe un ictus. Temetti che morisse senza aver esaudito il suo desiderio. Si riprese, ma non poteva più lavorare, Aveva appena 55 anni. Parlai con il medico dell’opportunità di affrontare un lungo viaggio in aereo e, dopo aver ricevuto l’assicurazione  che non c’erano grossi problemi, prenotai a sua insaputa i biglietti d’aereo per Natale. Gli dovetti promettere solennemente che avrei concluso comunque gli studi, dopodiché mi avrebbe restituito i soldi che avevo anticipato. Partimmo da Francoforte la sera del 23 dicembre.. Il ritardo del treno da Stoccarda a causa della neve ci fece fare una corsa che non dimenticherò mai.Temevo che a mio padre venisse un infarto e che il sogno finisse prima di essere incominciato. All’arrivo all’aeroporto internazionale con un caos incredibile, apprendemmo che il nostro volo  aveva cinque ore di ritardo. Ci accasciammo  sulle poltrone della  sala d‘attesa, tirammo fuori un mazzo di carte napoletane e ci mettemmo a giocare a briscola fino all’imbarco. Era la prima  volta che facevo un volo così lungo. Avevo un’enorme paura e ogni volta che l’aereo prendeva  dei vuoti d’aria pensavo che il destino  ci aveva attratti  in una trappola. E, invece di dare io conforto a mio padre che volava per la prima volta, era lui che cercava di tranquillizzarmi. Dopo dieci ore di volo facemmo scalo a Salvador de Bahja. Finalmente un buon caffè brasiliano, pensavo. Il caffè era una ciofeca, peggio di quello tedesco. Guardando fuori mi resi conto che  in poche ore eravamo  passati dall’inverno all’estate.

 Ad  Assuncion, cambiammo aereo  e il volo durò ancora qualche ora. -Voglio scendere!- incominciai a dire a mio padre, con lo stomaco sottosopra. Al mio orologio erano già le quattro del pomeriggio, in realtà era mezzogiorno quando atterrammo all’aeroporto di Buenos Aires.Era la Vigilia di Natale e il sole alto era caldissimo. -Ora ci vorrebbe un bel piatto di spaghetti al sugo di baccalà-,  disse mio padre, pensando al piatto tipico al quale quest’anno doveva rinunciare.  All’aeroporto c’erano ad aspettarci, oltre alla zia con marito e figlio, altre persone di origini accetturesi che neanche mio padre ricordava più o conosceva. Qualcuno voleva invitarci a prendere l’aperitivo a casa sua. -No- disse zia Sisina, dobbiamo andare  che  ho lasciato  la tiella col sugo di baccalà sul fornello. Mio padre ed io ci guardammo con un sorriso fra il sorpreso  e il compiaciuto.Zia Sisina aveva mantenuto la tradizione!

 Intontita dal lungo viaggio e dal caldo improvviso cercavo di capire dove fossi finita.L’autostrada che collega l’aeroporto alla città non era molto diversa da una qualsiasi autostrada europea, il paesaggio piatto e scialbo. Quando la lasciammo, ci addentrammo in un quartiere anch’esso  indefinibile.che aveva qualcosa dei paesi pugliesi. Le case  erano attaccate l’una all’altra, col tetto a terrazza, la porta con gli sportelli superiori in vetro, dietro una tenda anti mosche con riccioli variopinti in alluminio o plastica. Certo, non aveva niente di un quartiere popolare con le case tutte uguali.Qui ogni casa differiva dall’altra  nel colore o l’intonacatura della facciata, nel pezzo di marciapiede antistante. Capii dopo che il quartiere era prevalentemente abitato da italiani di origine calabrese, campana e lucana, quasi tutti artigiani con poco lavoro o impiegati nel terziario. Ognuno si era costruito con  le proprie mani o quasi la casa ad immagine e somiglianza di quella  del paese. Dona Flavia, la dirimpettaia di zia Sisina, piemontese, si era fatta (fare) una villetta a due piani con il tetto a quattro spioventi , con  balconi e terrazzi dai quali  dominare le terrazze del quartiere, pensando alle colline del Monferrato. Vedova con un figlio adulto scapolo, era l’unica che parlava un italiano ancora non troppo imbastardito dallo spagnolo  e da  reminiscenze dialettali. Era emigrata  in seguito al matrimonio con un italo-argentino. Il figlio Italo aveva frequentato una scuola privata italiana e si sforzava di dimostrarlo .-Qui siamo tutti orgogliosi essere italiani. L’Argentina l’abbiamo fatta noi-, mi disse un giorno Italo. E quando arrivava una nave dall’Italia, prima che i collegamenti aerei avessero la meglio, anche se non  si aspettava nessun parente o amico, correvamo al porto con una bandierina italiana in mano a dare il benvenuto ai nuovi arrivati e respirare un po’ d’aria di patria.

La nostra venuta da turisti non attirò le masse con le bandiere, ma decine e decine di visitatori di origine accetturese, di cui bisognava individuare la famiglia per dare notizie di questo o quel parente. Per mio padre, che viveva da più di vent’anni in Germania, non era certo facile, figuriamoci per me  che ero andata via da bambina dal paese. Alle visite seguivano gli inviti di questo o quel compare.Poi una messa per  l’anniversario di un giovane defunto, celebrata in spagnolo da un prete, anche lui di origine italiana, dove li ritrovai tutti. La cosa che mi colpí subito fu l’affettuosità scambiata con baci  al momento dell’arrivo e del  commiato, anche più volte al giorno con familiari e non. Avevo da poco dato un esame in letteratura ibero-americana che mi aveva fatto innamorare  dell’anima indio e immaginare un popolo andino che non trovai  nella metropoli piatta. Eppure anche  qua si sentiva qualcosa  che non era solamente il residuo di una civiltà contadina e meridionale  basata su intensi rapporti umani e sulla solidarietà fra emigrati nostalgici. Imparai subito che per definire positivamente una persona  si diceva :’Tiene mucho cariño’, e la parola cariño  racchiudeva il concetto di affabilità, gentilezza, affetto.Per me erano tutti cariñosi. 

Qui c’era qualcosa che mi ricordava l’aria ‘a mbrenna’ della mia infanzia. Le feste natalizie con un tempo estivo, festeggiate con pietanze tradizionali.e balli a suon di  fisarmonica.E alla fine si passava a cantare le canzoni popolari che tutti ricordavano,

  accompagnati dall’organetto di Vito, di origine lucana, che se l’era fatto portare  a posta dal suo paese. Zia Sisina cantava ancora alle  sampogne. 

 Nel pomeriggio, dopo la siesta, giocavo a  briscola.Ero  l‘unica donna e, se  mi capitava di essere compagna di mio padre, stravincevamo contro uomini  per il quale quel  gioco rappresentava un lontano ricordo. Era la vita semplice di gente che non si poteva permettere di passare le vacanze a Mar del Plata dove si trovavano alcuni fortunati parenti o conoscenti. La mia curiosità da turista non si limitava a cercare di capire la gente che, a differenza di altri turisti passeggeri, avevo la fortuna di  vivere. Cercavo di capire quel Paese alle prese con  la cronica inflazione galoppante, sempre al limite della bancarotta, governato da generali che avevano preso il potere con un colpo di stato quattro anni prima. Cercavo di indagare sull’opinione della gente. Avevo  letto sul Manifesto, al quale ero abbonata  e che  era stato il primo giornale a parlarne, delle donne di Plaza de Mayo, che si incontravano davanti alla Casa Rosada per denunciare la scomparsa di figli e nipoti. Nessuno sapeva niente di niente. Un parente di mio zio che faceva il poliziotto  cercò di convincermi, come ne era convinto lui, che erano ‘locas’ pagate dal KGB per gettare fango sul Paese . Riuscii a sapere da lui che si incontravano il giovedì pomeriggio. Annunciai a casa che volevo andarci, ma trovai l’assoluto dissenso. Mi feci complice la sorella del poliziotto Norma, legata a un indio ( l’unico che ho conosciuto), che non poteva sposare (piaga della famiglia ! ) perché  separato. In Argentina non  esisteva il divorzio. Con la scusa di farmi  vedere  l’ufficio dove lavorava da  segretaria andammo in centro, a circa quindici chilometri. Ma la manifestazione era stata già sciolta dalla polizia. Feci  la turista  nel centro storico con bei negozi d‘abbigliamento di grandi firme europee. Ma non c’era niente della verve delle metropoli europee. E chi si poteva permettere di pagare  quei prezzi  esorbitanti persino per me che facevo i calcoli in marchi tedeschi! . Le spaziose  ‘avenidas’, il rado traffico  di macchinoni che emettevano la puzza di uno strano carburante. Modelli antiquati che il mercato dell’usato  nordamericano aveva  rigettato.

  Ci riprovai il giovedì dopo, accompagnata da una ragazzina del vicinato .Vi andammo in treno. La stazione mi ricordava lo scalo di Grassano della mia infanzia, il treno come qualcuno dei nostri dopo la seconda guerra mondiale.

Sulla piazza c’erano questa volta le donne, con un fazzoletto bianco  in testa sul quale era attaccata con uno spillo una foto di un ragazzo o una ragazza e il nome e l’appello  ‘Chien lo viso?’ Signore distinte , molte non più giovani, nonne che cercavano un nipote, dall’aspetto signorile, pur nella semplicità del loro abbigliamento, segnate dal dolore ma con portamento dignitoso. Si erano disposte in cerchio  e incominciarono a girare l’una dietro l’altra. C’erano pochi osservatori curiosi, qualche turista,  sicuramente tanti agenti segreti che osservavano gli spettatori. Provai a chiedere nel mio spagnolo che si stava tingendo ‘de castellano’, facendo finta di non sapere di cosa si trattasse, ma non ottenni risposta, se non qualche alzata di spalla con frammenti di frase insignificanti.Qui non c’è famiglia che non abbia avuto o abbia qualcuno in carcere, o non si sa dove, senza  notizie, mi disse un giorno Michele , giovane medico disoccupato, figlio di calabresi, vicini di casa della zia: Per questo nessuno vuol parlare di politica  ,mi spiegò, la paura è ancora nelle ossa, sotto la normalità quotidiana. Quando dal  telegiornale captai che si stavano  preparando gli animi alla guerra delle Isole Falkland, cercai di far capire  che era una tattica per distogliere l’attenzione dai problemi interni, mi ritrovai contro un sacco di brava gente che vedeva  l’impostore inglese di pezzi della loro terra che non avevano mai visto. Mio padre, che in ogni caso era di idee politiche contrarie alle mie, mi imponeva di smetterla di politicare e mi minacciò di togliermi il passaporto la prossima volta che uscivo da sola, cosa che in ogni caso potevo fare, perché  ero una donna sposata, venuta senza marito.  Mia zia, che mi controllava il guardaroba prima di uscire o  mi diceva quello che  era più appropriato indossare. Non riuscivo a capire la minaccia di mio padre. Togliermi il passaporto per non farmi sparire? Dove era la logica? Non c’era una logica . Mio padre aveva  recepito l’atmosfera di paura e  l’unica cosa che sembrava dargli sicurezza , a lui emigrato, era  il passaporto,  il documento che garantiva l’identità, che comprovava l’esistenza. Se esisteva un passaporto si poteva cercare una ‘desaparecida’ Aha!

Una sera eravamo a cena  da compari  di origini accetturesi, con  figlie grandi e nipotini. Ci eravamo incontrati spesso in scambi di visite e varie occasioni. Avevo notato subito il marito  della figlia maggiore. Faccia da bravo ragazzo, biondino con gli occhi azzurri e lo sguardo triste , diffidente, pauroso e sfidante allo stesso tempo, che mi aveva  fatto sentire una stretta allo stomaco. Quella sera, durante  la cena a base di ‘asado’, fatta nel  giardino  sul retro della casa, al chiaro di luna, con la musica di dischi  con vecchie canzoni napoletane, Lito era seduto vicino a me. -Qui si vive di nostalgia-, disse con  tono melanconico, in sintonia con la musica, e nello stesso tempo sprezzante e rabbioso. Si passò poi a cantare  in coro a cappella , più o meno le stesse canzoni, proposi di cantare Bella ciao. Oltre a mio padre e a mia zia non la conosceva nessuno e quando il padrone di casa capí che era una canzone politica, venne fuori un pss insieme a una guardata intorno in direzione dei giardini  e delle case attigue. ?—Eres una compagnera’?- Mi chiese allora Lito. Annuii. -Yo soY montonero- La moglie  incominciò  ad agitarsi sulla sedia e gli impose di non parlare di politica. Il giorno dopo  marito e moglie vennero a prendermi per portarmi a vedere la casa che si stavano costruendo. Lito, diventato nella sicurezza della macchina, a sei orecchi, improvvisamente loquace,  incominciò a parlarmi  dei rischi che si correvano  solo ad aprire la bocca e dire una parola sbagliata. Non esisteva nessun movimento e anche il lavoro sindacale nelle fabbriche si svolgeva a livello clandestino, con volantinaggio rischioso e infruttuoso. -Per forza-, protestava la moglie,- che cosa ne si ha se non  il pericolo di perdere tutto, lavoro, famiglia e libertà?-. Lo sapeva lei come se l’era vista, quando lui era stato per alcuni mesi in carcere. Ora basta, non doveva occuparsi piú di politica, per il bene die figli ancora piccoli. La casa che si stavano costruendo era in un quartiere nuovo, residenziale, una villetta  a due piani con giardino in stile inglese. Capii dopo che era il sogno di ogni giovane coppia che voleva uscire dal barrio  dei genitori ed antenati. A un certo punto  Lito sollevò una botola e tirò fuori  una rivista e un  disco.- Te li regalo- mi disse. La rivista era un numero di Epoca, edizione argentina che aveva fotografato le cariche della polizia e scene di violenza durante il colpo di stato del 76, sequestrata  immediatamente, un documento raro e pericoloso.Il disco un 33 giri con canzoni della resistenza spagnola.

Per  la moglie fu come liberarsi del cadavere in cantina, per me un segno di fiducia e omaggio  graditissimo, accettato con le lacrime agli occhi. Al ritorno passammo dai genitori di lui di origine campana. Un grande ritratto di Evita, la prima moglie di Peron,

dominava il semplice, ma lindo  soggiorno. “Lei sì che ha fatto grandi cose per noi. È stata la mamma dei  poveri”, mi spiegò con tono riverente e devoto il padre di Lito. “Sotto Peron si stava  bene. Poi la Isabelita  gli ha fatto perdere la testa e il potere. -Ma come è possibile che in un paese come questo, dove  la raccolta è due volte l’anno,  viviamo così male? È colpa di quella gente  corrotta, che per permettersi il lusso di case e appartamenti dove ci vogliono i  pattini o la bicicletta per spostarsi, vendono le nostre  risorse-.

I giorni passavano velocemente, fra inviti e visite. Le persone che avevo modo di conoscere mi incuriosivano terribilmente. Mi interessava la loro storia, quando e perché avevano lasciato l’Italia. Ma soprattutto mi interessavano gli Accetturesi. Un anziano signore calvo, distinto con occhiali, al quale portammo un pacchettino di una mia prozia, sua nipote o cognata, era partito da solo a sedici anni e non era  mai più tornato. Abitava  in una villetta con la moglie, una distinta signora argentina , che sfoggiava con orgoglio il suo discreto italiano. Il modo di rivolgersi la parola faceva immaginare un immutato amore. Se potessi arrivare con un elicottero sopra Accettura, disse in un buon italiano con qualche interferenza spagnola o dialettale, saprei dire esattamente: quella è la Vamiletta, quello è il tratturo, quello è Camiglio, quello… ed enumerò tutte le contrade che io conoscevo solo di nome, ma che non riuscivo a localizzare. Gli raccontavo che ormai al Calvario c’erano le case nuove, che il paese  si era esteso, ma non insistetti più di tanto nel voler modernizzare  la sua  veduta fotografica, fissata  in chissà quante  visite aeree immaginarie.

Era rimasta una sola settimana e in fondo mi dispiaceva non aver visto molto delle innumerevoli attrazioni turistiche  delle guide  che mi ero procurata prima della partenza.. la Pampa, le Ande, la Terra del Fuoco. Quando azzardavo a fare cenno che mi sarebbe piaciuto vedere questo o quello, ci si confrontava con le enormi distanze e il tempo a disposizione. Nascondevo la mia delusione dicendomi che sarei tornata un giorno da vera turista. Ora ero qua per altri motivi. Un  procugino  di qualche anno più giovane di me, nipote di quello zio Antonio  fratello del nonno partito negli anni venti e mai più tornato, si offrí di farmi da cicerone un sabato pomeriggio insieme  una ragazza di origini siciliane che si ostinava a sfoggiare con orgoglio un pessimo italiano che aveva studiato in chissà quale scuola italiana da bambina e che la famiglia di lui non accoglieva di buon occhio. Era una giornata grigia con temperatura diventata improvvisamente quasi autunnale. Gli chiesi di portarmi a vedere un cimitero. È un po‘ una mia fissazione quando visito un  Paese nuovo.  Mi pare di capire molto della civiltà, della mentalità,  insomma della vita del popolo stesso. Mi portarono al Cimitero de la Recoleta. Rimasi senza parole. Dopo aver visto la semplicità dei tanti quartieri periferici, mi ritrovai  fra  statue e palazzi di marmo. La parte italiana  con quello fatto venire naturalmente

dall’Italia .Testimonianza  di  leggendari periodi di splendore, monumenti con cui  gli arrivati di ogni gruppo etnico avevano voluto immortalare il proprio  successo  nella nuova patria. È uno dei cimiteri più importanti del mondo, mi dissero le mie due guide con tono compiaciuto e orgoglioso.Io ero intontita , ma percepii la dimensione delle contraddizioni   che   caratterizzavano da sempre il Paese.Da lì ci  dirigemmo al porto.-Qui si sono insediati i primi genovesi-,  disse José rallentando a passo d’uomo e indicando le casette a due piani  in legno colorato. Il turchese  dominava. -Qui è nato il tango- La Boca  non si poteva visitare a piedi. Dovetti accettare.Cenammo in un locale del centro, a base di carne, naturalmente e quando uscimmo le strade erano gremite di gente come non l’avevo mai vista nelle visite diurne. Mi spiegarono che la gente che lavorava anche il sabato usciva la sera tardi per andare a cena, a ballare, al cinema. Io optai per il cinema.La fila alla cassa  era per ‘L’uomo di ferro’ che celebrava un Lech Walesa che lottava in una Polonia comunista. E questo era il motivo per cui non era caduto nelle fauci della censura.All’uscita verso le due, la fila era ancora più lunga.Rimasi a bocca aperta nel sentire che l’ultimo spettacolo iniziava alle quattro. Per quell’ora rientrammo a casa dove mio padre non aveva chiuso occhio. L’incubo della figlia che poteva sparire, il pensiero di dover lasciare la sorella che probabilmente non avrebbe più rivisto gli fece venire un mal di pancia che assunse dimensioni atroci. -Ecco la forza di voi uomini- volli prenderlo in giro,-tanto teatro per un po‘ di mal di pancia.E se doveste fare i figli?-  Mi guardò con uno sguardo così addolorato come non lo avevo mai visto.Ho paura che morirò qui. Non scherzai più e pregai mia zia di andare da un medico. Avevo pur fatto l’assicurazione per ogni evenienza  e capii che non c’era tempo da perdere.Il medico il cui studio era in un quartiere coi prati all’inglese, era di origine calabrese. Aveva fatto il tirocinio in un ospedale di Milano, parlava un ottimo italiano e fu di un’affabilità unica. Quando gli chiedemmo come regolare il conto, ci rispose che quella era l’ultima cosa. Il problema serio era che se non avveniva lo sblocco bisognava operare  d’urgenza. Seguirono ore tremende con immagini apocalittiche suscitate  in me dalla paura  di mio padre.Il giorno dopo …il miracolo.Nella notte  aveva sognato San Giuliano e al mattino ebbe la certezza che  avrebbe superato il pericolo.Prolungammo il soggiorno di un’altra settimana e la domenica dopo si organizzò un pellegrinaggio alla Madonna di Lujan, invocata da mia zia e dalle commari paesane durante il travaglio di mio padre. Il santuario si trovava a qualche ora di macchina da Buenos Aires e vi andammo con una carovana di macchine.- Finalmente un po’ di natura!- pensai guardando fuori.La vegetazione mi ricordava quella della Pianura Padana, più esattamente quella delle Valli di Comacchio. Chissà perché dovetti pensare ad Anita Garibaldi  che forse nel morire si era sentita come a casa propria.

Il pellegrinaggio si trasformò in una piacevolissima scampagnata offuscata solo dal pensiero dell‘imminente partenza.Il Santuario in stile  barocco spagnolo era circondato da attrezzature per  pic-nic sotto alberi di betulle e pioppi .L’attrazione per grandi e piccoli era il luna-park adiacente e un paio di seggiovie  che non portavano in cima a nessuna altura, ma sulla vetta di un altissimo palo, dal quale ammirare il panorama sottostante  e ritrovarsi poi nella ridiscesa con  la paura del vuoto e del precipizio espressa con grida e stridii infantili da  uomini e donne.

Ci accompagnarono all’aeroporto in tanti. Alcuni avevano preso la giornata libera.Il commiato fu straziante. Ci saremmo mai più rivisti ?

Il volo  di ritorno fu allucinante con una sosta  di cinque ore  non prevista a Madrid, poiché non si poteva atterrare a Francoforte a causa di neve, nebbia e ghiaccio.

Il ritorno nell’inverno tedesco e in una realtà  che vedeva il mio matrimonio andare a rotoli,  stetti altre cinque settimane ammalata di…nostalgia.Ascoltavo tutti i giorni il disco con canzoni di Mercedes Sosa e Oratio Guaraní che mio cugino José mi aveva regalato insieme a un  poncho con motivi tipici in beige e varie tonalità di marrone. ‘No quisieria chiererte, pero te quiero ed es como un castigo la vida mia”…. cantavo pappagallescamente e miglioravo il mio castellano appreso a un ritmo incredible che aveva lasciato incredula una  ingegnera paraguaiana  con la quale avevo tenuto interessanti conversazioni durante l’interminabile viaggio.

E a chi mi chiedeva -come è l’Argentina?- rispondevo con le lacrime agli occhi- meravigliosa- ,ma non riuscivo a  spiegare loro che cosa mi fosse piaciuto in modo particolare anche perché le meraviglie die depliant turistici non le avevo potute visitare. -La gente- dissi poi. E capii che mi ero riportata a casa la nostalgia di milioni. -Qui si vive di nostalgia- aveva detto Lito con i suoi occhi fra il triste e la sfida.

Mio padre morì quattro anni dopo.  Sulla sua tomba è deposta una coroncina in ferro battuto con fiori in plastica  portata da uno degli accetturesi buenosairesi che ha avuto  la fortuna di venire a farsi un viaggio, con la scritta ‘Te recuerdamos todos’ .

Con la zia Sisina, zio Fonso e il figlio José ci sentiamo, da quando lei ha un telefono, per le feste. -Holá, niña ! quando vienes a trovar la tia?-

-Presto-, le prometto sempre. Spero di poter mantenere  la promessa insieme alla zia Michelina, l’ultima sorella non sposata. Ho paura però che questa volta non sarà la stessa cosa e di distruggere un’immagine che vorrei conservare così com’è. E se ci aggiungessi le Ande e la Terra del fuoco questa volta?

Anna Picardi

Author: ragaraffa

Blogger per passione e per impegno, ama conoscere e diffondere le voci delle donne che cambiano.  

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