Monica è nata in quella che ancora si chiamava Rhodesia, adesso Zimbabwe. Fino a suoi sette anni, c’era la guerra, era costretta ad uscire in orari prestabiliti, a parlare piano per non farsi sentire dai soldati, temeva sempre che potessero fare irruzione a casa sua, se fossero stati disturbati. Tutti si muovevano piano, per non irritarli. Ha ancora incubi ricorrenti di quando, piccina, ha assistito alla fucilazione di due suoi zii e di quando si è nascosta dietro la sua maestra perché un soldato enorme, ai suoi occhi appariva tale, minacciava lei ed altre bimbe per farsi dire se avesse visto non ricorda chi o cosa.
Suo nonno, figlio di una delle tante mogli di in signore ricco cui la madre era stata data in sposa per poter mantenere una famiglia poverissima, era stato cresciuto ed istruito dai gesuiti che hanno fatto studiare anche lei da infermiera e Monica, studiosa e diligente, all’età di 22 anni, è stata condotta in Italia da un’associazione umanitaria perché potesse studiare.
Arrivata a Roma si sentiva sperduta , il divario con il suo villaggio era enorme, non aveva amici né parenti, ma ha stretto i denti, un giorno ha trovato un cagnolino per strada che le suore da cui alloggiava le hanno permesso di tenere con sè. Dopo due anni di liceo per conseguire la maturità, si è iscritta alla facoltà di Medicina. La sera, dopo la frequenza obbligatoria in facoltà lavorava nel call-center della Telecom, e così anche il sabato e la domenica, studiava quando e come poteva, ma, con fatica, rinunciando a tutto, ce l’ha fatta a laurearsi in sei anni . Monica era la prima di nove figli e in Africa, la prima dei figli ha il compito di proteggere gli altri. Lei lavorava sodo per poter inviare i soldi in Africa e poter offrire ai fratelli un supporto economico, anche a costo di mille rinunce.
Dopo la laurea ha lavorato in tanti ospedali e cliniche del Lazio, senza mai fermarsi Adesso presta servizio presso un centro di cure palliative, è un compito non facile quello di assistere malati terminali per alleviare il loro dolore, ma lei lo affronta con il sorriso.
Il suo vero conforto è dato da un orto solidale dove semina, pianta, raccoglie. Si reca tutti i giorni nella sua oasi prima di andare al lavoro, in inverno qualche giorno a settimana , d’estate, tutte le mattine, si alza alle 4 per innaffiare, è dura alzarsi così presto ma le verdure del suo orto, la cura della terra hanno il potere di riportarla al suo villaggio dove, mi dice, sogna di tornare quando i suoi figli saranno cresciuti e divenuti autonomi. Vuole comprare un terreno vicino al luogo dove è sepolta sua madre e dedicarsi alla gente del posto in cui è nata.
Qualche anno fa ha condotto i suoi due figli laggiù, si è stupita delle facilità con cui essi si sono adattati al cibo così diverso da quello cui erano abituati e alla mancanza di acqua corrente e di elettricità.
Monica mi racconta tutto ciò in una registrazione che condivido qui per le lettrici di donne con lo zaino, una vita esemplare di dedizione e di cura, uno zaino per l’Africa, uno per la gente che accompagna dolcemente nel fine vita, uno pieno di verdure per i suoi figli, uno per noi che la ascoltiamo ammirati per il suo impegno.
Qui Monica ci descrive un gioco semplice che faceva quando era bimba con delle bottiglie, lo ha ripetuto con i suoi figli e mi racconta come essi fossero felici nel suo villaggio natale nel ripetere le stesse usanze di quando lei era piccola, sostituendo gioiosamente e senza nostalgia tivù e videogiochi con giochi costruiti da loro con ciò che avevano a disposizione: bottiglie di plastica, stracci e giornali vecchi.
R.