Una donna con lo zaino ci ha scritto per raccontarci di lei, dei suoi studi e delle sue interessanti esperienze e siamo liete di farla conoscere alle nostre lettrici.
Isabelle Preuilh ha più vite: è diplomata in storia dell’arte, danzatrice, traduttrice, interprete, conduttrice radiofonica ma, soprattutto è un’instancabile viaggiatrice.
Un giorno, mentre camminava lungo la via che porta a Santiago de Compostela, una statua posta nella cornice di una finestra ed alcune bandiere tibetane attirarono la sua attenzione. Pochi giorni dopo, un incontro con una sciamana guatemalteca e una giovane studentessa di Roma la convinsero ad entrare in contatto con la cultura tibetana.
Appena tornata da Santiago iniziò perciò a studiare medicina tibetana. Il suo interesse per certe pratiche la portò successivamente nel nord dell’India, ai confini del Pakistan, a Dharamshala, poi in Tibet, Darjeeling, Sikkim e infine in Nepal dove incontrò lama e guaritori e sperimentò le loro pratiche di autoguarigione ancestrale.
Questi vari approcci alla cultura tibetana la spinsero infine verso la lingua che trasmetteva ciò che aveva imparato fino a quel momento. Così si fermò tre anni a Kathmandu per seguire un corso di filosofia in un monastero sulle alture del quartiere tibetano. Studiò il tibetano classico, e si confrontò con diverse tecniche di meditazione tantrica.
Nel 2017 diventò membro della Fondazione Internazionale per la Medicina Tibetana – Sorig Khang International, e iniziò a tradurre un testo di pratica meditativa pubblicato poi con il titolo “Le miroir de lumière” per le edizioni Sky Press. Responsabile della filiale della fondazione in Francia, a Marsiglia, si occupa da allora di trasmettere i principi della meditazione energetica e di tradurre in francese manuali di pratiche tibetane.
Oggi, vive a Firenze. Dopo aver sperimentato i benefici di queste pratiche tradizionali nella vita quotidiana, insegna meditazione energetica e progetta di tornare ad accompagnare viaggi in Himalaya. Sta per pubblicare la sua seconda traduzione dal tibetano dove viene spiegato in maniera dettagliata come praticare la meditazione dzogchen.
Vi invito a visitare himalayantrailing.com, il suo blog (in lingua francese e tradotto da Google con fantasia!). E’ interessante e colorato come lei.
Così ci racconta di una sua esperienza a Kathmandu:
Il processo è impegnativo, frustrante, a volte mi porta alla nausea. Ma è necessario se voglio travalicare, ritrovarmi seduta dall’altra parte della parola, laddove Il significato non è definizione ma sensazione.
Il processo è lungo, lento, senza fine apparente, e a volte mi scoraggio ma il giorno successivo sono di nuovo seduta di fronte all’uomo che ho scelto come insegnante, in attesa delle sue parole, dei suoi consigli. Ogni pomeriggio, su un tappeto sbiadito, in mezzo ad una stanza con pochi mobili mi siedo a gambe incrociate, in semi loto. Davanti a quell’uomo. È avvolto in una pezza di cotone bianco in ogni stagione. Prima che entri, egli accende un bastone di incenso e recita preghiere affinché si possa godere della massima protezione durante la nostra sezione di traduzione. Dalla finestra, si distingue la sagoma dello Stupa, che dall’alto dei sui 43 metri, simboleggia la natura della nostra mente secondo le varie tradizioni spirituali dell’Himalaya.
Siamo nel cuore di Bodhanath, il quartiere tibetano di Kathmandu, cuore pulsante di una delle scuole filosofiche che l’uomo studia, plagia, deride, rispetta da quasi tre millenni.
Vivo a Bodhanath. Nel caos apparente, nel rumore, nella polvere, nella moltitudine, in cerca di qualche forma di disciplina che possa orientare la mia mente verso quel che non ha ancora sperimentato.
Non possiedo particolare talento ma mi piace l’idea di navigare in mari sconosciuti… Per cui mi siedo ogni pomeriggio nello stesso posto, con la determinazione di chi proprio non ha né talento né genio, e ciò per circa undici mesi. All’inizio leggevo con lentezza, in cerca di lettere da identificare, di sillabe da abbinare, di parole da riconoscere. Passavo ore ed ore a distinguere una sola parola fra centinaia. Perché?! Il Tibetano è una lingua parlata da circa quattro milioni di persone, forse cinque, se consideriamo i rifugiati sparsi su diversi continenti. Eppure mi pare attività indispensabile, anzi ne va della mia vita. Incontrerò qualcuno che parlerà solo tibetano e con il quale avrò bisogno urgente di comunicare? Insegnerò tibetano in Occidente? Rinascerò in Tibet?! Con ogni probabilità, niente di tutto ciò! Eppure ricopio parole all’infinito perché possano riecheggiare in me, imprimersi nella mia mente, nella mia carne. Perché possano modellare il mio pensiero come la goccia d’acqua modella la roccia.
Ogni parola sconosciuta sembra un gioiello, la chiave di una stanza buia. Qualcuna infonde paura. Intuisco che lo sforzo sarà immenso, forse aldilà delle mie capacità, ma so anche che la faccia nascosta di certe sillabe potrebbe avvolgermi e prendersi cura di me, fino a respingere più in là i limiti della mia consapevolezza.
È allora che inizia il mio vero e proprio viaggio.
Nella vallata che guarda al tetto del mondo.
Del nostro mondo.
Isabelle Wangmo Preuilh
Firenze, 21/11/2021
Questo raccontarsi intimo, profondo…mi affascina! Il viaggio che travalica il percorso e la meta e diventa occasione per una rivisitazione di ciò che si è di ciò che si ha è, a mio avviso, la ragione del nostro…muoversi. Bellissima narrazione.