Ogni anno, a settembre, Feltrinelli scuola pubblica un catalogo per docenti e alunni, aperto da tre articoli, uno del responsabile editoriale, uno di uno scrittore e uno di un docente. Lo scorso anno una “donna con lo zaino”, professoressa di Storia e Filosofia che ha già scritto per noi , è stata scelta per dire la sua sui libri classici. Ci sembra interessante pubblicare sulla nostra rubrica ” Letture” il suo intervento.
Silvia, Riva Trigoso
E’ importante leggere i classici a scuola? Quante volte abbiamo sentito questa domanda?
Io sono stata posta davanti a tale questione molto prima di diventare una docente di storia e filosofia, ovvero vent’anni fa ai tempi dell’università quando uno straordinario professore di storia moderna organizzò un seminario facoltativo dal titolo: “Cos’è un classico?”. Una dozzina di studentesse e studenti si videro una volta a settimana per diversi mesi per confrontarsi su questo tema. Si partì da una lista di duecento titoli fornitaci dal professore (e ancora da me gelosamente custodita) che fu stimolo di voraci letture, e che pur essendo arbitraria non voleva esser intoccabile, tanto che ognuno di noi fu invitato a suggerire e “sponsorizzare” un titolo per valutarne l’inserimento.
Partimmo ovviamente dall’etimologia di “classicus” (da clarus-a-um: ciò che si sente in modo chiaro e distinto) e facemmo riferimento a tanto altro fino ad individuare gli scrittori indiscutibilmente più importanti, gli “scriptores” classici, quelli di prim’ordine.
Capimmo, allora forse non così nitidamente, qualcosa che a diversi di noi servì poi didatticamente una volta divenuti insegnanti e cioè che quella domanda apparentemente retorica “A cosa servono i classici?” funziona solo se i classici non li presenti agli allievi come un obbligo – peraltro spesso faticoso – ma come un’occasione. Non un passaggio obbligato(rio) che toglie ogni attrattiva all’autore in questione ma uno squarcio che si apre disinteressato, senza fini pragmatici, senza attribuzione specifica di voti e giudizi, solo per dare spunti, incuriosire e avvicinare ai grandi testi del passato e poi lasciar libero sfogo alla voglia, al gusto e forse al bisogno dello studente/individuo/lettore.
Si legge un classico per lo stesso motivo per cui si studiano la storia, la poesia, la filosofia: per conoscere l’umanità, quella incarnata nel mio “io”, mai a me indifferente e che si definisce in rapporto o in contrasto con quel libro; per aprirsi a mondi altrimenti persi nei meandri del tempo; per ritrovare le radici più profonde della civiltà europea e mondiale; per coniugare il significato di universale e particolare, di eterno e attuale .
Risuonano vere le parole di Italo Calvino che afferma che i classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: «Sto rileggendo…» più che «Sto leggendo…», e risuonano soprattutto nell’atto di in-segnare, di continuare a lasciare delle tracce.
Un classico è quindi quel libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire, fondamentalmente perchè pone e offre più domande che risposte. Insomma una cifra fortemente filosofica.
Ora che insegno da molti anni ho capito che quella domanda ha la risposta implicita nella scuola, che è il luogo ideale per far apprezzare i classici, e senza ricorrere a classifiche, liste eterne e frasi introduttive, semplicemente proponendo, narrando, leggendo e citando continuamente queste autrici e questi autori indispensabili nella formazione dell’uomo. Facendolo con disinvoltura, naturalmente, come se parlassimo di persone a noi vicine nel tempo e nello spazio. Che possono comunicare direttamente con noi.
Quindi ai classici ricorro didatticamenteogni giorno. In termini universali.
Senza limiti geografici, di genere, di epoche.
Di slancio mi vengono in mente due testi classici, ricorrenti nel dialogo con i ragazzi. Due testi molto diversi e al contempo ugualmente indispensabili nel mio orizzonte culturale e nella costruzione della mia idea di mondo. Due testi, che controllando sulla originaria lista del “mio prof”, stilata rigorosamente in ordine alfabetico per autore, stanno al posto 128 e 196. E che sono “Utòpia” di Thomas More e “Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf.
Utopia, una parola nuova coniata da More e che oggi ha poco più di 500 anni. Il libro infatti uscì nel 1516 e nel bel mezzo del Rinascimento ci regalò la descrizione di un viaggio singolare e di un “luogo che non c’è”. La filosofia classica aveva già conosciuto la descrizione utopistica – ante litteram – della “città migliore” della Repubblica platonica, ma More rende la sua isola un modello politico moderno all’interno di una letteratura visionaria e al contempo profondissima. Un prototipo che non a caso colleghiamo nei programmi scolastici alla “Città del Sole” di Tommaso Campanella e alla “Nuova Atlantide” di Francis Bacon.
Eppure l’Utopia di More ha qualcosa di unico. Mette insieme una feroce critica del suo presente e il desiderio di un mondo di armonia e di giustizia, di uguaglianza e di libertà: il sogno di un mondo che non c’è, che ancora non c’è, ma che forse potrebbe esserci.
E’ un testo che apre a tantissime domande di varia natura: dalla filosofia alla storia, dall’economia alla politica alla religione. E domande facilmente declinabili al presente e al futuro, domande sulle ideologie del passato, sul sogno americano o sull’Unione Europea, che sono didatticamente legittime dopo aver letto More. Prospettive temporali da leggersi come sconfitte o alternative praticabili.
E certamente se non è possibile annoverare l’autore tra i profeti del passato, vista una contemporaneità più vicina alle distopie che alle utopie, possiamo sicuramente raccogliere il suo testimone e chiederci: “un altro mondo è ancora possibile?”.
Una stanza tutta per sé, è un saggio straordinariamente moderno e necessario, nato da due conferenze del 1928 a cui Virginia Woolf partecipa per parlare del tema “Le donne e il romanzo”. Questo libro diventa poi un manifesto sulla condizione femminile alla luce del contesto storico e della passione dell’autrice per le lettere. Virginia Woolf sa benissimo che le donne sono escluse dalla cultura tout court da secoli e che ciò deriva dall’impossibiltà di dedicarsi a qualcosa che non rientri nelle mansioni e negli obblighi sociali e familiari. Quale donna poteva permettersi d’altra parte denaro ed “una stanza tutta per sé”?
Attraverso uno stile equilibrato l’autrice si rivela capace di ironia e di spunti provocatori, di riflessioni acute e lucide, di espressioni di un animo sensibile delicato e al contempo forte e determinato.
Illuminante e commovente la figura di Judith Shakespeare, un’immaginaria sorella del ben più noto William, alla quale è preclusa l’istruzione (tema ripreso ne “Le tre ghinee”) e non sono offerte le stesse opportunità di imparare e conoscere ma solo il destino di sognare ed arrendersi alla dura realtà.
Quanto sono attuali i pensieri di questa autrice ad un secolo di distanza? Moltissimo, per riflettere sul concetto di libertà e uguaglianza al femminile, ancora oggi. Proprio oggi.
Questi due classici, tra tanti altri, sono occasioni necessarie, oltreché per fortuna piacevoli, per le nuove generazioni per attualizzare questo passaggio di consegne e di domande.
Io intanto vado a ri-leggermi uno degli altri 198 testi, in rigoroso ordine di “curiosità analfabetica”.
Silvia Suriano