Ho comprato L’assemblea degli animali di Filelfo, che richiama il medievale Il parlamento degli uccelli, ma il tema trattato è di ben maggiore importanza di quello del poema medievale. Il nome dell’autore è uno pseudonimo. Ne ho sentito brani alla radio, ne parleremo dopo la lettura.
Crepuscolo di settembre
Vi ho raccolti in un fascio,
posso fare a meno di voi –
Sono stanco di voi, caos
del mondo vivo –
Posso solo prodigarmi
per un certo tempo a una cosa viva.
Vi ho evocati all’esistenza
aprendo la mia bocca, alzando
il mignolo, azzurri
tremolanti dell’aster
selvatico, fiore
del giglio, immenso,
venato d’oro:
dimentico i vostri nomi.
Andate e venite, ciascuno di voi
imperfetto in qualcosa,
compromesso in qualcosa; valete
una vita, non più.
Vi ho raccolti in un fascio;
vi posso cancellare
come se foste un abbozzo da buttar via,
un esercizio
perché ti ho finito,
visione di lutto profondissimo.
Nell’ultima poesia de L’iris selvatico, il creatore, o la natura, parla a noi umani, che forse siamo solo un esercizio, un abbozzo, di cui ci si può sbarazzare una volta terminato; cosa siamo, in fondo, se non “caos del mondo vivo – visione di lutto profondissimo”? Il mondo che abitiamo, l’abbiamo devastato, stiamo precipitando verso la catastrofe, trascinando con noi tutti gli esseri viventi. Come possiamo lamentarci della nostra situazione? E come mai non cominciamo a lavorare seriamente, tutti, per salvare quel che è ancora salvabile?
E’ un libro che mi ha porto brevi manu Sandro, un bel volume di poesie di Louise Glück , con testo originale e traduzione a fronte: ho deciso di leggerne una al giorno, per gustarmele meglio, e ne vale davvero la pena; pochi giorni dopo, Lina mi ha regalato Averno, della stessa autrice, che leggerò dopo aver completato le poesie del giardino. E altre poesie ancora, veramente brevi prose poetiche, celestialmente giunte dal Portogallo, Dias e dias, di Adília Lopes, che non conoscevo.
The Collected Stories di Grace Paley viene da Lidia e Andrea, mentre Guida alla Venezia ribelle da Silvia e Toni. Anche questa guida la sto leggendo un pezzo al giorno.
Ma dal Portogallo mi è anche arrivata un’altra guida: Itália. Prácticas de viagem.
E dalla Francia, A la ligne di Joseph Ponthus, un romanzo molto particolare, per la forma narrativa, quasi un poema in versi sciolti, irregolari, senza rima, ma con molte figure tipiche della poesia. Potrebbe essere un rap, o una raccolta di rap. La lingua è però quella quotidiana, anche gergale. Una lettura dura, un tema difficile.
Pioggia permettendo, ancora passeggiate nel parchetto vicino a casa, dove si possono osservare pettirossi, cince, molte ghiandaie e talvolta una garzetta, e si può seguire l’evoluzione del gelsomino d’inverno, che pian piano si copre di una cascata di fiorellini gialli, ahimè, non profumati a differenza di quello estivo; ma al profumo provvede il calicanto. Con il gelo e la bora sono arrivati i codibugnoli, quei minuscoli uccelletti della famiglia delle cince, persino più leggeri degli scriccioli (7/8 grammi!), che volano in bande da un albero all’altro, e riconoscibili per la loro coda lunga.
Bella passeggiata nel Bosco di Mestre, al quale bisogna arrivare in macchina. Prevale, a prima vista, il biancospino, al momento coperto di bellissime bacche rosse, che suppongo dia nutrimento ai tantissimi uccelletti che si sentono ma si vedono poco; in primavera qui il profumo deve essere inebriante. Ma i cartelloni illustrano flora molto più varia di quanto la vegetazione spoglia dell’inverno faccia supporre, e una fauna di mammiferi e uccelli piuttosto abbondante. Ci torneremo. Questo bosco è stato ricreato utilizzando terreni agricoli abbandonati, e alcune parti sono state dedicate, come il bosco Ottolenghi (rabbino veneziano ucciso a Auschwitz), e il bosco Zaher (dedicato a Zaher Rezai, tredicenne, nato in Afghanistan e venuto a morire sotto le ruote di un Tir alla periferia di Mestre). Gli è stato eretto un memoriale, una scultura di metallo in forma di libro, che porta questi versi “Giardiniere, /apri la porta del giardino, /io non sono un ladro di fiori, /io stesso mi son fatto rosa, /non vado in cerca di un fiore qualsiasi.” trovati nel quaderno che il ragazzo portava con sé. Tutt’intorno, sono sorti dei piccoli memoriali dedicati da famigliari a persone defunte: somigliano un poco alle animitas cilene, spesso c’è una fotografia, dei fiori piantati o recisi, qualche oggetto, qualche decorazione; al Libro di Zaher sono state appesa molte cravatte.
Paragrafo dedicato agli amanti di Jane Austen e dei film e serie televisive che sono stati tratti dai suoi romanzi. Di Pride and Prejudice nel Regno Unito mi sembra che la televisione abbia sfornato una versione ogni dieci anni. Non ho visto quella in bianco e nero degli anni quaranta, con Laurence Olivier nella parte di Darcy, ma me ne sono concessa recentemente quella del 1980, che ho trovato – a parte la bassa definizione e la perdita di colore delle immagini – piuttosto ben fatta, con una scelta convincente della maggior parte degli attori. Mi era capitato di imbattermi, frugando nelle Teche Rai, della versione italiana, uno “sceneggiato” del 1957. Ventitré anni (dal ’57 all’’80) sono molti, la tecnica in quel periodo aveva fatto passi da gigante, e quindi non starò a criticare i costumi, il trucco e le pettinature dei personaggi – sebbene le divise raffazzonate dei soldati della guarnigione e le terribili parrucche degli innecessari bambini per fare colore mi siano sembrate veramente indecenti – ma il travisamento del romanzo! La prima scena è preceduta da una sorta di prologo in cui si vede un duello (mai avvenuto, tra Darcy e Wickham) in cui quest’ultimo riceve una ferita in faccia, Darcy dà per conclusa la faccenda e Wickham dice che per lui resta aperta. Evidentemente la tesi che si propone è che quella sia l’origine di tutto, mentre non è affatto così. Inoltre, Wickham cerca Darcy (nel romanzo mai!) e accusa lui e la sua famiglia di avergli riservato un trattamento “oppressivo e ingiusto”, assurgendo quasi a eroe negativo che fa il male, ma per vendetta e con qualche ragione (come si diceva di qualche personaggio byroniano, più vittima di “peccati” altrui che peccatore lui stesso).
Liz, Virna Lisi, è bellissima, troppo per il suo ruolo, radiosa e ben paffuta, Jane (che qui diventa, chissà perché, Jenny) che nel romanzo è la bellezza di casa, anche se meno impulsiva e brillante di Liz, è una Vira Silenti piuttosto bruttina e moscia; Franco Volpi (reso immortale da un carosello) è un improbabilissimo Darcy, che viene chiamato David dall’amico Bingley (mai nel romanzo! In tutti i romanzi di J. A. gli uomini vengono chiamati con il cognome, preceduto o no da Mr. o dal titolo); Wickham un Enrico Maria Salerno che non avrebbe potuto sedurre nessuno. Si salva Sergio Tofano nel ruolo del padre, e bisogna lodare il Collins di Elio Pandolfi, ma penso che il merito sia solo dell’attore, visto che il regista ha diretto il tutto in modo pecoreccio.
Raiplay è una vera caverna di Alì Babà: ci ho trovato perle, diamanti, tesori a non finire. La produzione di A Midsummer Night’s Dream al Massimo di Palermo, per esempio. Musica bellissima, scenografia semplice e suggestiva, costumi geniali, specie quelli delle fate e degli elfi, tra cui quello di Puck, splendidamente interpretato da un attore-danzatore-cantante (Chris Angius Darmanin).
Oppure una bella selezione di film di Tognazzi di cui ho rivisto la ben amara pellicola di Pietrangeli, Io la conoscevo bene, un bel bianco e nero con una splendida e giovanissima Sandrelli, dove Tognazzi è un patetico vecchio artista che si abbassa a tutto pur di racimolare qualche lavoretto; Il Commissario Pepe di Scola, in cui interpreta un umanissimo, dignitoso commissario di polizia, La stanza del vescovo di Risi, per il quale viene sfruttata la sua maestria nel proporsi come laido e squallido e Non toccare la donna bianca di Marco Ferreri che lo presenta in una parte quasi da clown triste e ambiguo.
Recentemente è stata data molta pubblicità al Thermopolium ritrovato negli scavi di Pompei: subito è corsa voce che la città vesuviana fosse stata precorritrice dello street food contemporaneo; dimenticando che il cibo di strada, oggi di gran moda perché ci rimbalza dai civilissimi States, (come la deplorevole moda del caffè in bicchieri di carta, che nei film americani tutti si portano dai vari Starbucks all’ufficio, contribuendo così all’accumulo spaventoso di rifiuti spesso nemmeno sottoposti a raccolta differenziata), era l’unico modo che avevano le plebi urbane di poter mangiare cibi cotti e caldi, dato che nei poverissimi tuguri dove abitavano non esisteva possibilità di cucinare, e che potersi cucinare veri pasti è una delle conquiste civili dei due ultimi secoli, insieme alle abitazioni con spazi sufficienti per le famiglie all’acqua corrente e i servizi igienici in casa; conquiste che in alcuni paesi del mondo non sono mai state raggiunte.
Il 2020 non ha voluto andarsene senza regalarci un po’ di atmosfera, e così dopo Natale abbiamo avuto un paio di giorni ventosissimi, e una notte e mattina di neve, sciolta però nel pomeriggio.
Il mio amico Andrea ha proposto un brindisi di fine anno con tombola su zoom: eravamo una ventina, la tombola è stata impossibile, qualcuno di noi ha contribuito con commiati ispirati al congedo dall’anno vecchio. Io sono riuscita a mettere insieme un limerick molto zoppicante:
Duemilaeventi, bisesto e bestiale,
Che ci hai portato soltanto del male,
Stai per finire, vecchio birbone;
2021, ti offro un torrone, (leggere ventiventuno!)
Se ti accontenti di esser normale.
Finito il maledetto 2020, il nuovo anno si annuncia meteorologicamente calamitoso, con nuvoloni neri che corrono in cielo, pioggia e neve.
Né le notizie sul virus ci rallegrano, i numeri sono sempre in crescita, e il “Veneto Felix” rischia di piombare in zona rossa, perché il nostro “salvatore”, il grande Zaia (presidente della regione, ma gli piace di più governatore), forse non ha fatto tutto proprio benissimo. Ma, siccome non tutte le comunicazioni sono coerenti, magari potremmo anche transitare nella zona gialla; al giornale radio ho anche sentito paventare l’inclusione, da parte dell’EU, del Veneto in area profondo rosso!
La Pfizer ci comunica che non ce la farà a tener dietro alle richieste; l’Astrazeneca, non ancora in uso da noi, ma con la quale l’UE ha firmato un accordo, sembra non riuscirà a mantenere le promesse. E scopriamo pure che l’agenzia UE che ha stipulato i contratti con queste multinazionali del farmaco, si è fatta infinocchiare, siglando condizioni per cui, tutti i vantaggi – i profitti – vanno alle ditte produttrici, che sembrano non avere obblighi, perché restano proprietarie assolute dei brevetti, e non si assumeranno le spese di risarcimento per effetti avversi che saranno a carico dell’UE (che però ha sborsato dei bei soldoni per finanziare la ricerca) o dei singoli stati. Verranno nel frattempo approvati gli altri? Riusciremo a vaccinare tutti i vaccinandi entro l’estate? Ormai è legittimo avere seri dubbi. A questo punto, il problema non sarà certo costituito dai no-vax!
Il nostro ineffabile sindaco, Brugnaro, da quel raffinato intellettuale che è, ha annunciato che i musei civici resteranno chiusi fino ad aprile (e forse a Pasqua, che fortunatamente cade la prima settimana). Meno male che le chiese veneziane sono altrettanti musei, e che le Gallerie dell’Accademia sono statali e, forse, almeno noi locali, riusciremo a tornare in quei luoghi, per non morire per astinenza da cultura.
E i cinema, i teatri, luoghi molto sicuri, perché le regole di distanziamento, disinfezione e mascherine sono totalmente controllabili, quando riapriranno?
E le scuole? Difficilissimo problema da risolvere, perché chiunque insegni o lo abbia fatto sa quale rompicapo anche in tempi normali sia l’orario che deve prevedere orari ragionevoli per studenti, personale ATA e insegnanti (chi con 5, 8, 10 classi, chi con 3 scuole!) e trasporti urbani. Solo chi la scuola non la conosce dal di dentro ha la soluzione pronta e si permette di dire bestialità inaccettabili.
Ma non finisce qui, il nostro ineffabile Renzi ha provocato l’orrenda crisi che rischia di farci precipitare nella catastrofe e perdere i finanziamenti europei; ma se lo può permettere, gioca a vari tavoli, e ha a sua disposizione un jet privato fornito dai sauditi per tornare al momento giusto a Roma e stare dietro ai suoi affari italiani.
Tanti sono gli altri problemi che non trovano soluzione: il caso Regeni, quello di Patrick Zaki, la situazione da incubo dei profughi bloccati in Bosnia, tra l’incudine del covid e il martello del gelo, oltre alle violenze cui vengono sottoposti e la mancanza di cibo, per citarne solo tre, ma ce ne sarebbero decine, e siamo sempre più disposti a girarci dall’altra parte, per non vedere, per un senso di impotenza, o per paura di doverci impegnare.
Insomma, l’entusiasmo di esserci lasciati alle spalle un anno nefasto si è subito ammosciato.
Come possiamo riprendere qualche speranza? Dobbiamo cercare di non perdere i contatti umani, anche se le norme anti-covid non ce lo rendono facile. Sentirsi, anche vedersi mantenendo le misure di sicurezza, scambiare opinioni e ragionare anche sul futuro, perché un futuro c’è sempre.
E magari, lasciamoci consolare dalle piccole cose quotidiane, come le albe e i tramonti, magari fotografandone qualcuno, per cui, nei grigi giorni invernali, si possono sempre rievocare sfogliando il nostro album.
Sicuramente la maggior parte di noi ha soprattutto ricordi di tramonti, meno di albe. Le albe invernali sono tardive, se si lavora non si ha tempo di fermarsi a guardarle, come sembrano fare molti personaggi dei quadri di Hopper.
Io, per esempio, sono molto attiva al risveglio, e scruto il cielo, soprattutto per capire come sarà la giornata, ma poi comincio la mia solita routine.
Al tramonto, invece, verso la fine della giornata quando ci si può concedere una sosta, ci si può fermare a contemplare il calar del sole, sempre che ci si trovi nella giusta situazione. Ma da casa mia, nell’entroterra veneziano, è impossibile, le mie finestre guardano verso Nord, Nord-est e Sud-est. Da Ovest mi giungono solo riflessi, quando il ponente si specchia nei vetri delle finestre di un palazzo dirimpetto, e allora il sole mi entra in casa. I miei due balconi sono troppo stretti, non posso metterci poltrone o sdraio per concedermi di ammirare le albe estive, a volte deliziose, con le scie rosate degli aerei che decollano dal Marco Polo, a una quindicina di chilometri di distanza (dimenticando per qualche minuto quanto inquinamento rappresentino), o il sole che si alza al di sopra dei tetti e degli alberi, in tutta la sua gloria. Ho provato a fotografare quei momenti ma, ora che non uso più la macchina fotografica, trovo che il mio cellulare falsi troppo i colori e non renda giustizia a quei miracoli. In ogni caso non mi lamento, gli edifici intorno a casa mia non sono alti, e posso guardare sopra i tetti.
Da ragazzina, quando abitavo a Cuneo, da una finestra di casa potevo vedere il sole calare oltre la cerchia delle Alpi Marittime con tutte le sue varianti meteorologiche e stagionali, e la Bisalta innevata diventare rosata e poi dorata al suo sorgere. A quei tempi non si fotografava tutto come oggi, si riservavano i rullini per foto “importanti”; e così, nessuna traccia materiale delle stupende albe e dei favolosi tramonti dai rifugi in montagna, e neanche più tardi, arrivata a Venezia, ho immortalato le grandiose scenografie che si possono godere in laguna, quando si torna verso sera dalla giornata di spiaggia al Lido: niente giova più a Messer Sole, di mattina o di sera, di un provvido specchio d’acqua, specie se appena mosso da brezza o dalle lente piccole onde della scia di una barca.
Ugualmente perse, ma mai dimenticate, le albe che il percorso verso la scuola a Jesolo, in pullman, mi regalava lungo il Sile, con il fiume che emergeva lucente dal buio e rifletteva ogni giorno le diverse formazioni di nubi, le sfumature del cielo diafano e il sole che si staccava lentamente dall’oscurità delle rive.
Solo la memoria però può evocare l’emozione di cieli pieni di rondini e dei loro gridi nelle aurore e nei tramonti di Cuneo, Corfù e Roma, impossibili da riprodurre se non parzialmente e con mezzi sofisticati.
Che piacere l’aperitivo in compagnia degli amici dalla mia casa di Viña del Mar, in Cile, guardando il Pacifico, mentre il sole terminava la sua giornata in un tripudio di colori, o guardando gli uccelli della Mar Chiquita in Argentina, che se ne tornavano al nido solcando l’incendio che invadeva il cielo di ponente.
E che incanto una delle poche albe documentate fotograficamente, l’uscita in canoa nel Pantanal, una zona umida in Brasile, nel silenzio appena turbato dai primi canti di uccelli, avvolta in un’a’atmosfera di bambagia rosata, scivolando sull’oro liquido del fiume.
Perdonate questa circo un po’ sconclusionata.
Marisa
31 gennaio 2021
BRAVAAAAAA MARISAAAAAA!! E, auguri, anche se con tanto, tanto ritardo!