Qualche anno fa ho fatto un viaggio in Brasile con una vecchia compagna di università, gran viaggiatrice per lavoro e per piacere e abituata a tutti i climi, condizioni alimentari e abitative, oltreché alle culture diverse dalla nostra europea.
Giannina si sveglia presto, quasi come me, non è una chiacchierona, apprezza sia le bellezze naturali che le città, ed è curiosa di tutto.
Atterriamo a Salvador di sera; la prima giornata è intensa: dedichiamo il primo giorno al cuore della città, includendo il museo della Misericordia, la chiesa di San Francisco con i suoi stupendi azulejos, la fondazione Jorge Amado, e naturalmente al Pelourinho, il cimitero degli Inglesi, lo yacht club, il museo del’arte di Bahia, la libreria del cinema. Camminatrici lente, ma costanti, maciniamo implacabili i nostri cinque chilometri in salita, confortate, strada facendo, dall’agua de coco e da un vatapá (frittelle di farina di mandioca ripiena di caururú – una purea di okra – e gamberetti, che si vendono ad ogni angolo di strada, su carretti minuscoli dotati di fornello e gestiti da bahiane di solito in costume tradizionale: gonne lunghe e ampie, fazzoletto annodato a mo’ di turbante in testa: a queste signore Ary Barroso ha persino dedicato una bellissima canzone “No tabuleiro da bahiana”.
Il tempo era ideale, soleggiato, di tanto in tanto un po’ di pioggia, bell’arietta.
Abbiamo preso contatto con Dulcelina, una vecchia amica che è vissuta a lungo in Italia, dove si è sposata e si è laureata, anche se da qualche anno é tornata in patria. Lei ci ha portate in giro per il centro storico e non solo, e ci ha fatto scoprire l’esistenza di piacevolissime pousadas che l’agenzia di viaggi alla quale mi ero rivolta preparando il viaggio non aveva saputo propormi.
Con una guida come lei, bahiana purosangue, non ci sentiamo più turiste. Passiamo una bella giornata sull’isola di Itaparica, visitiamo forti, spiagge, mercati.
E poi ci propone un candomblé: la sera attraversiamo la città in un pullmino insieme a un piccolo gruppo di turisti, e la guida ci spiega i fondamenti di questa cerimonia sincretica, di origine africana. Arriviamo a un quartiere molto povero, Katuba, ovviamente tutto nero (Salvador è la città più nera del Brasile; forse per questo è anche quella dove ci sono le donne e gli uomini più belli del paese). Il terreiro, cioè l’edificio dove si svolge la cerimonia, è bianco e celeste, con begli spazi esterni, e l’interno abbastanza simile a una chiesa – forse una volta lo era, nell’abside, una specie di altare e anche, mi è parso, qualche immagine cattolica.
La mãe de santo, decrepita, minuta, con il tradizionale costume bahiano a grandi gonne ampie e pizzi, sta seduta su una gran sedia, nella mano destra ha un oggetto di argento, una specie di cono sottile lungo una ventina di centimetri, che batte ritmicamente. Tutte le figlie e un figlio di santo entrano nel locale, nella parte centrale; ai lati, a sinistra i fedeli e gli spettatori, le donne e a destra gli uomini. La musica, percussioni e una sorta di campane e, a volte, canto, inizia ritmica; i figli di santo ballano, e si interrompono ogni volta che cambia la musica.
Ogni musica corrisponde a un orixá, una divinità africana sincretizzata con un santo cristiano. Questo candomblé era dedicato a Omolu, il San Lazzaro cristiano. Quando entra la musica dell’Orixá di cui il o la fedele è figlio/a, questi può esserne “cavalcato”, cioé posseduto, e entra in una specie di trance.
All’inizio della cerimonia ero abbastanza scettica, pensavo fosse una messinscena per turisti. Poi, da molti elementi, tra cui il fatto che quasi tutte le filhas de santo erano anziane e certamente non belle figliole messe là a sculettare per compiacere i turisti, e perché alla fine, dato che ci eravamo spostate in prima fila da dove stavamo, abbiamo ricevuto il saluto – un abbraccio – veramente affettuoso delle filhas man mano che lasciavano il terreiro, mi sono resa conto di aver assistito a qualcosa di autentico, e Dulce l’ha confermato.
Dulce ha un appartamento nel quartiere di Rio Vermelho, la zona bohémienne della città (dove tra l’altro ha casa anche la grande Maria Bethânia). La sera del 1° febbraio siamo andate a dormire da lei, perché la mattina dopo volevamo partecipare all’alvorada, cioè l’inizio della festa di Yemanjá, l’orixá del mare che inizia all’alba. La mia compagna di viaggio, nonostante ci dicesse che siamo matte, e affermasse di volersene restare tranquillamente a letto, ci ha poi seguite nella città già formicolante di gente, vestita di bianco o bianco e celeste, i colori di Dona Janáina (altro nome di Yemanjá), regina del mare; tutti portavano fiori, anche enormi ceste; e tra i fiori, regali di profumi o altro. Tutti questi doni sarebbero poi stati caricati su barche e offerti alla signora del mare più tardi. Noi abbiamo solo visto la processione incessante di gente che andava nella casa di Yemanjá (attaccato alla chiesa) a offrire un fiore, a inginocchiarsi, chiedere grazie, pregare, facendo anche il segno della croce: sincretismo senza problemi.
Anche noi abbiamo contribuito con la nostra rosa candida, e ci eravamo messe abiti bianchi. Oltre alle persone che facevano la fila per entrare nella casa dell’orixá, a centinaia affollavano la spiaggia sottostante e la baia era già affollatissima di barche di ogni tipo e colore.
Nel pomeriggio siamo andate a casa di un professore universitario italiano amico di Dulce, Mauro, che viveva a Salvador ormai da più di vent’anni, e che ogni 2 di febbraio fa un “caururú portas abertas”, che qualcuno ha soprannominato “maururú, dal suo nome. Il caururú è un piatto bahiano tipico, con fagioli, riso, e molti altri ingredienti della tradizione afro-bahiana; portas abertas significa che l’ospite fa sapere che le porte della sua casa sono aperte a chiunque voglia festeggiare con lui: la festa continua finché rimane del cibo.
La casa era piena di gente che mangiava, beveva, chiacchierava, andava in giro, ballava. Ci sono state presentate moltissime persone, tutte curiose e gentili, e abbiamo mangiato cibi deliziosi, accompagnati da copiose libagioni. Ma, non essendo della fibra brasiliana capace di resistenza non comune nei festeggiamenti, e stroncate dalla levataccia, nel pomeriggio abbiamo lasciato il maururú nel suo massimo fervore.
Per tornare a casa di Dulce abbiamo dovuto affrontare una folla fittissima che continuava i festeggiamenti iniziati all’alba, e che sarebbero terminati solo la mattina seguente, dopo una notte brava di musica, ballo, bevute e anche, ahimé di risse e violenza.
Temo che il prossimo 2 febbraio la festa di Yemanjá sarà molto problematica, difficile convincere i suoi fedeli a non partecipare di persona. Speriamo che Omolu/Lazzaro, si impietosisca e liberi la città dal virus prima della ricorrenza.
Marisa