Arrivati in altura, abbiamo cominciato la terza parte del percorso, nella puna, un altopiano che, in quella zona, è prevalentemente sabbioso, anche se ci sono tratti con vegetazione – il solito coirón, quasi l’unica forma che sopravvive tanto in alto – e delle lagune. Abbiamo visto alcuni piccoli gruppi di vigogne, simili al guanaco, e parecchi uccelli, ma anche la vita animale lassù è molto scarsa. Il terreno è a dune, alcune moto alte, altre piccole come le increspature di un lago quando spira una leggera brezza. Si tratta di finissima sabbia bianca, spolverata di una rena più grossa e nera, che rende le dune suggestivamente sfumate. A un certo punto abbiamo cominciato ad avvistare, in lontananza, le formazioni di pomice, resti di una gigantesca esplosione vulcanica milioni di anni fa, nel Pleistocene: sembrano, in lontananza, bianche sfingi stilizzate accucciate sulla pianura tutte rivolte nella stessa direzione; quando incominciano ad essere più numerose, danno l’impressione di una sterminata città araba nel deserto. Siamo ormai a 4200 metri, il vento è gelido nonostante il sole; il campo si estende per 25 chilometri per 18. La 4×4 deve cercare il fondo meno cedevole anche fuori pista, visto che in questa il vento zonda dei giorni scorsi ha accumulato sabbia fresca. Finalmente ci avviciniamo alle “sfingi”, e ci fermiamo per osservare le formazioni più da vicino e anche per mangiare i nostri panini: per arrivare fin qui ci abbiamo messo sei ore, praticamente senza fermarci mai.
Il contrasto tra il perfetto azzurro del cielo, il bianco delle formazioni e del terreno rigato da crepe dovute agli sbalzi di temperatura notte/giorno, il caldo del sole, la purezza dell’aria e il silenzio assoluto danno sensazioni uniche.
Al ritorno, senza più il riferimento delle “sfingi”, che restano alle nostre spalle, e alla ricerca di suolo più solido per il veicolo, perdiamo la pista. Manuel è evidentemente preoccupato, anche se è giorno pieno, e la direzione è chiara: quello che non è chiaro è il percorso materiale, e rischiamo di passare una notte gelida (senza viveri) in questo deserto dove nessuno ci verrà a cercare. Cerco di contribuire con ottimismo allo spirito della spedizione, e, insieme a un po’ di coraggio, Manuel ritrova la pista. Fuori pericolo, finalmente, si abbandona alle confidenze: ha una gran voglia di mangiare puma. Come, gli chiedo, a parte che i carnivori di solito non sono commestibili, mi pare che il puma sia protetto, proprio lui, una guida diplomata, manifesta certi insani desideri? Certo, dice lui, il puma lo cacciano i gendarmi; eppoi, mica si mangiano gli adulti, solo i cuccioli! Di bene in meglio, dico io, e lo diffido dal perseguire un proposito così criminale.
Ma Manuel non ha finito di stupirmi … Mi chiede da quale città italiana io provenga. Venezia, gli dico. Mi chiede dov’è, a sud? A nord, sull’Adriatico, spiego. Ma Manuel non ne ha mai sentito parlare, e vuol sapere cos’ha di speciale. Quando gli dico che non ci sono auto, chiede se sono vietate. Nonostante la mia spiegazione non ha capito che non ci sono strade, che le isole sono collegate da ponti, che le calli sono strette … Evidentemente gli studi per il suo diploma turistico sono limitati alla parte del mondo in cui vive, il che spiega come, in una chiesa di adobe il giorno prima, parlando di un quadro rappresentante una madonna che allatta il bambino, con un seno scoperto, affermi che si tratta di un pezzo rarissimo, ce ne sarebbero solo cinque “al mondo”.
Il ritorno è tranquillo, ripercorriamo la stretta gola (che al mattino abbiamo fatto in una luce crepuscolare) in pieno giorno, apprezzando ancora di più le straordinarie formazioni rocciose.
Il Campo de Piedra Pomex mi ha talmente colpita che, mentre mi trovavo ancora a Córdoba, ho progettato un altro viaggio, con un’amica; ma proprio poco prima che partissimo, ci sono state grandi alluvioni nella zona e abbiamo dovuto rinunciarci.
Ormai l’Argentina mi è molto lontana, e i miei viaggi si limitano all’Italia e all’Europa. Ma le “sfingi” che guardano tutte verso qualcosa che noi viaggiatori non potremo vedere mai rimangono nettissime nella mia memoria.
Il sabato, giorno del ritorno, lo dedico alle terme, fino all’ora di andare a recuperare il bagaglio e correre alla stazione degli autobus: il mio è previsto per le 17. Mentre all’andata ho potuto prendere un diretto, il ritorno non mi offre questa possibilità, e a Catamarca dovrò cambiare. Si parte con trenta minuti di ritardo, senza motivo né giustificazione: intanto, dice l’impiegata, il pullman recupera sempre. Sono un po’ in ansia per la mia coincidenza, ma in effetti il viaggio – che sembra non finire mai, anche perché in certi tratti tutti curve in montagna si va a passo d’uomo o quasi – dura meno delle 6 ore previste, e a Catamarca mi aspetta una lunga attesa, ma finalmente si riparte, e all’alba sono di nuovo a Córdoba.
Marisa